Un film di Mike Leigh. Con Timothy Spall, Lesley Manville, Alison Garland, James Corden, Ruth Sheen, Marion Bailey, Paul Jesson, Sam Kelly, Kathryn Hunter, Sally Hawkins, Daniel Mays, Helen Coker, Ben Crompton, Robert Wilfort, Gary McDonald. Titolo originale All Or Nothing. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 128 min. - Gran Bretagna 2002.
Con affetto: così Mike Leigh ha scritto e girato Tutto o niente (All or Nothing. L’affetto, tuttavia, non l’ha indotto ad attenuare le molte durezze e le molte miserie che intristiscono le vite di Phil (Timothy Spall) e di Penny (Lesley Manville), dei loro figli Rachel (Allison Garland) e Rory (James Corden), e degli altri che condividono la loro povertà materiale e la loro desolazione. Nessun pregiudizio si frappone fra il suo occhio e i suoi personaggi: il suo cinema non paga il prezzo, sempre esoso, dell’impegno sociale immediato. Certo lo si sente sullo sfondo, quell’impegno. Se ne avvertono la sincerità e la rabbia. Mai però lo si sorprende a sovrapporsi al racconto, alla sua autonomia espressiva e poetica. È doloroso “entrare” nelle immagini di Tutto o niente, nei suoi dialoghi crudelmente umani, troppo umani. Quello che Leigh descrive è (sembra) un paesaggio devastato, un territorio svuotato d’ogni possibilità. Nelle inquadrature d’inizio questo (apparente) deserto morale e affettivo è raccontato per cenni, con riferimenti a personaggi e a situazioni che tornano nell’indifferenza della circolarità narrativa, e di cui non si colgono i legami reciproci. Ognuno così emerge ai nostri occhi in una sua sconfortata solitudine. A lungo in platea non la si supera, questa frammentazione di sensibilità e di affetti. D’altra parte, pian piano, la miseria emotiva lascia intravedere una dimensione più profonda, e anche più ricca di sofferenza. L’effetto è di sorprendente simpatia, cioè di condivisione, di partecipazione alla vita di uomini e donne che, ora, ci appaiono esposti senza difese alla vita. Se mai siamo stati tentati di giudicare le loro esperienze, se mai abbiamo creduto di esaurire la nostra curiosità umana in una condanna, ora invece sentiamo l’urgenza di arrivare fino nei loro cuori e nelle loro anime, e di scoprire il luogo segreto in cui quelle esperienze nascono già sconfitte.
Perché Carol (Marion Bailey) perde le sue giornate nell’alcol? Perché il marito Ron (Paul Jesson) ne condivide l’apatia suicida, incurante di trascinare nella loro propria distruzione la figlia? E perché questa travisa la sua rabbia e riduce la sua ribellione a gesti anch’essi autodistruttivi, per quanto le sembrino strategie d’amore. Infine, perché fra loro e in genere fra tutti gli uomini e le donne del film non ci sono discorsi e non ci sono parole, ma quasi solo suoni verbali vuoti di senso, se non invettive e turpiloquio? Questo alla nostra simpatia appare come il luogo segreto della loro sconfitta: questa incapacità e impossibilità di elaborare le sofferenze facendone un discorso, e perciò di dare parole alle solitudini. Capita così che il cuore e l’anima tentino d’arrivare a farsi coscienza e linguaggio, ma che proprio lì, nel luogo in cui le parole prendono forma, sperimentino la loro prima sconfitta (infatti c’è chi, nel film, arriva a “scrivere” sul proprio corpo l’amore che gli è impossibile dire). Da un tale circolo vizioso i personaggi di Leigh rischiano di non uscire più. Ogni tentativo di chiedere all’altro tutto, come sempre pretendono il cuore e l’anima, innalza l’incapacità di parlargli davvero, e anche di dare a se stessi le parole necessarie alla consapevolezza del proprio bisogno emotivo. Così le richieste d’amore sono fraintese e negate, e alla fine la loro forza si capovolge in gesti cattivi che danno e fanno male, e che a loro volta alimentano le sofferenze e le solitudini. Tutto questo sta ben dentro una desolazione materiale, ben dentro un abbandono sociale dei più deboli, che nel film non è affrontato esplicitamente, ma che lo colora della propria miseria. D’altra parte, lo sguardo di Leigh è colmo d’affetto e simpatia. Il suo cinema non può abbandonare anch’esso uomini e donne di cui ha sentito e ha visto la sofferenza segreta. E allora escogita per alcuni uno “stratagemma’ che li sottragga al deserto emotivo. A vincere la crudele circolarità del farsi male, a interrompere il circolo vizioso dell’amore frainteso in cui Phil, Penny, Rachel e Rory sembrano ormai persi, è un ultimo colpo cattivo della sorte. Nel momento in cui la sconfitta sembra più fonda e “necessaria”, con simpatia e affetto quello stesso dio cieco del caso apre una via d’uscita alle loro solitudini. Attorno al letto di Rory, i quattro trovano l’occasione e il coraggio di fare del proprio bisogno d’amore un discorso condiviso, e dunque danno forma alla consapevolezza di se stessi. D’improvviso, nonostante ogni miseria e ogni abbandono, il niente che li minaccia si apre, e il tutto dei loro cuori e delle loro anime corre su ponti di parole.
Il voto di Pierolupo: 4/5
Bello e tragico nello stesso tempo, la distruzione di una famiglia proletaria inglese. L’ho visto qualche anno fa in un cineforum e mi è rimasto dentro come mi succede solo con certi film inglesi. Certo non lamentiamoci dei nostri ragazzi… Da vedere.
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