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Ricerca personalizzata

mercoledì 18 settembre 2013

Trentemoller – Lost

 

Terzo album ufficiale di Anders Trentemøller: un disco che, secondo le stesse dichiarazioni dell’artista danese, vuole spostare l’accento sulla dimensione live, con un impianto maggiormente spendibile in sede di concerto. Trentemøller, d’altronde, ha già maturato l’assetto con band durante gli ultimi tour, quest’anno è stato di spalla anche ai Depeche Mode, e l’esigenza di un approccio più suonato rende “Lost” abbastanza differente dalle sue prove precedenti: non c’è lo splendido minimalismo elettronico di “The Last Resosrt” né l’emotività in trip di “Into The Great Wide Yonder”, ma pezzi grintosi come “Declive” e “Still On Fire”, parentesi post-rock introspettive (“Trails”) e le movenze sinuose al femminile che di lui conosciamo (“Candy Tongue”, “Come Undone”).
Tra le collaborazioni, nomi importanti come Low, Jonny Pierce dei The Drums, Kazu Makino dei Blonde Redhead, Sune Rose Wagner dei Raveonettes, la Marie Fisker già vista in “Sycamore Feeling”, Jana Hunter dei Lower Dens e i Ghost Society. L’ascolto in streaming è in esclusiva italiana su Soundwall, via Deezer.

mercoledì 11 settembre 2013

Scaricare contenuti dalle chat IRC

Chi di voi non ha mai scaricato un film da internet? Penso che quasi chiunque al giorno d’oggi l’abbia fatto o ci abbia provato almeno una volta, e questo state tranquilli non è detto che sia illegale. Quello che oggi voglio proporvi è un modo diverso da quelli tradizionali per scaricare film, musica e contenuti piratati più in generale; il programma in questione è mIRC, ovvero il client delle chat IRC, un software di messaggistica istantanea che ha la particolarità di essere suddiviso in canali, ognuno ne possiede uno e chiunque può entrarvi se ha a disposizione il permesso e/o l’indirizzo; sul canale a sua volta esistono delle altre particolarità, ma quella che andremo ad usare permette di scaricare pacchetti dati (opzione DCC), tramite l’inserimento di una particolare stringa di codice direttamente nella chatbox. Il problema ora è questo: dove trovo gli indirizzi dei canali e i relativi codici? Semplice esistono dei siti pieni zeppi di queste cose, ma io ve ne consiglio uno totalmente legale, veloce da caricare e ben fatto, si chiama XDCC Finder ed è raggiungibile da qui.

mIRC download

Adesso vi lascio al video per chiarirvi i vari passaggi, buona visione

P.S. Scusate per la qualità video/audio un po scarsa, ma il mio computer sente gli anni.

lunedì 9 settembre 2013

Glasvegas - Later... When The Tv Turns To Static

Later...When the Tv Turns to Static (Deluxe Edition)

https://myspace.com/glasvegas

Tracklist
1.Later...When the TV Turns to Static
2.Youngblood
3.Choices
4.All I Want Is My Baby
5.Secret Truth
6.I'd Rather Be Dead (Than Be with You)
7.Magazine
8.If
9.Neon Bedroom
10.Finished Sympathy

Una dose eccessiva di emozioni messe a nudo e un romanticismo intenso, quasi spavaldo, hanno delineato gli scozzesi Glasvegas come una delle band più amate-odiate degli ultimi anni.
Il loro esordio del 2008 resta un affresco ancora vivo di malinconia, feedback e testi ricchi di dilemmi, mentre l’outing emotivo del successivo “Euphoric /// Heartbreak” era sì fragile, ma a tratti ancora convincente nonostante il tono eccessivo degli arrangiamenti.
James Allan con “Later…When The TV Turns To Static” affronta la prima crisi d’ispirazione concentrando l’attenzione su un suono più diretto e pulito: nonostante il flusso resti godibile non c’è traccia di quell’ardore che ha reso i Glasvegas una band di culto.
Se le prime note della title track sembrano proiettare tutto in una dimensione più aulica, le tensioni restano in attesa di un’evoluzione che tarda a venire, lasciando una leggera sensazione di amaro in bocca. Purtroppo le dieci tracce restano tutte legate a questo schema involutivo che raramente concretizza il corpo armonico, mentre i testi indugiano sugli ardori giovanili senza la convinzione degli esordi.
Il tono glorioso di brani come “Geraldine” o “Shine Like Stars” e la malinconia persuasiva di "Whatever Hurts You Through The Night" sono ormai un ricordo e quello che resta è un piacevole e innocuo insieme di canzoni agrodolci.
In verità, per un attimo viene voglia di entusiasmarsi: “Youngblood” accenna la stessa enfasi del passato, “If” sprizza rabbia e energia allo stato puro (citando anche i Talking Heads e la loro “Road To Nowhere”), ma sono solo residui di un vigore che sembra dileguarsi nella banalità da talent-show di “Choices” e nel pasticcio armonico di “All I Want Is My Baby”.
Lo slancio di “Sacred Truth” è senz’altro encomiabile e per un attimo capace di catturare l’attenzione, ma la mancanza d’identità resta il vero problema del terzo capitolo dei Glasvegas: brani come “I’d Rather Be Dead (Than Be With You)” e “Neon Bedroom “ non hanno quel brio capace di resuscitare la passione del primo album.
Il passaggio alla gloriosa Bmg non sembra aver ridato slancio a James Allan, e il budget più solido ha contaminato le sonorità del gruppo, rendendole troppo pulite e prevedibili: nonostante il buon cuore dei fan, “Later... When the TV Turns to Static” è destinato a restare un capitolo minore della loro carriera discografica. (Ondarock)

sabato 7 settembre 2013

Placebo - Loud Like Love

Loud Like Love [+digital booklet]

https://myspace.com/placebo

Too Many Friends” è il primo singolo tratto da “Loud Like Love”, il nuovo disco dei Placebo!

Tracklist
1 Loud Like Love
2 Scene Of The Crime
3 Too Many Friends
4 Hold On To Me
5 Rob The Bank
6 A Million Little Pieces
7 Exit Wounds
8 Purify
9 Begin The End
10 Bosco

martedì 3 settembre 2013

The Antlers – Hospice

Tracklist
1.Prologue
2.Kettering
3.Sylvia
4.Atrophy
5.Bear
6.Thirteen
7.Two
8.Shiva
9.Wake
10.Epilogue

http://www.myspace.com/theantlers

Antlers, base a Brooklyn, è l'idea del cantautore Peter Silberman. Nel suo primo album, "Uprooted" (2006), la sua rielaborazione della canzone folk intimista arriva a una sorta d'illusione acustica tra Syd Barrett e la folktronica, con corredi sonici di tutto punto (talvolta noise-psych, talvolta silenti). Il secondo tentativo "In The Attic Of The Universe" intuisce la direzione, grazie all'utilizzo di campionamenti, live electronics, effetti lo-fi, strati sonici crepuscolari, misture melodiche, e nuovi aromi psichedelici. Il suo uso del drone, peraltro in linea con le tendenze contemporanee, rimpiazza del tutto gli arrangiamenti e le orchestrazioni tradizionali.
Ormai attorniato in pianta stabile da Darby Cicci e Michael Lerner, Silberman progetta "Hospice", con cui traduce integralmente quelle intuizioni a progetto d'insieme, coagulando tanto i nuovi membri quanto l'idea-album. Spartito tra angelica contemplazione e cura certosina, il disco lascia sgorgare liberamente la densa schizofrenia che ne consegue, come in "Kettering" (suoni aerei miscelati a piano ovattato insistente, su una nenia depressa pseudo-soul alla Antony), ma mette anche in chiaro il suo fiuto per orchestrazioni stratificate e costrutti armonici disorientanti.
Ne è prova l'isterismo con cui fonde folk melodico e shoegaze in "Sylvia", alternando un pianissimo di distorsioni acquatiche e mormorio Drake-iano a un fortissimo sgolato Slowdive-iano, sopra un acceso battito marciante, o come "Bear" costruisca una ficcante cantata partendo da un semplice, intenso carillon da bebè (quasi una fusione tra un'accorata melodia di Cat Stevens e la pulsazione lisergica dei Flaming Lips). O come nebbie di live electronics, feedback lirici di chitarra e ondate drone ribollenti coesistano nell'ipnotico ambient di "Thirteen" (per poi sfumare in un toccante recitativo d'opera Cat Power-iano per soprano asmatico e piano melanconico).
Anche più d'effetto è il commosso, carezzevole carosello psicotico di "Two", uno strabiliante crescendo annunciato da un alacre strimpellio e da un flusso di coscienza in falsetto bisbigliato, culminante in subissi di distorsioni garage-rock, accordi di piano in sovratono maestoso e contrappunto di fiati medievali (a raggiungere un'estasi degna dei tardi Talk Talk).
Continuando ad esplorare la sua tavolozza sonica, Silberman impagina lo stratificato, commosso, poliritmico pop da camera di "Shiva", e la spettrale carola senza parole del "Prologue", costretta in una membrana oscillante di elettronica distorta, echi e loop. Silberman è solo nell'"Epilogue", un madrigale voce-chitarra che scompare improvvisamente in un arcano frattale di organo, virtualmente mutante all'infinito.
Le sue torture sentimentali più difficoltose sono organismi autonomi che torreggiano a metafora dell'album, e pure riescono a implementare una decisa qualità onirica. "Atrophy", otto minuti, procede per continuum di beat minimal con cui avvicenda un rullante marziale, una canto-miraggio, rintocchi gravi e radiazioni atmosferiche che si alzano e incorniciano un contrito tema di fuga barocca-new age che farebbe rosicare Mark Kozelek. Una muraglia acuminata di dissonanze elettromagnetiche lo polverizza in sfaceli di cristalli elettronici, fino a spegnersi in uno stornello acustico. I nove minuti di "Wake" sono meno arditi ma anche più comunicativi, secondo armonie barbershop deformi, sfocate, che si confondono pian piano con l'organo, fino a sfociare in un glorioso slogan corale, paradisiaco e bandistico.
Lungi dalla mera imitazione degli Arcade Fire, il disco ne risale direttamente alla stessa fonte, ricombinando elementi classici o artificiali a scopo salacemente poetico. Ma anche disperatamente cinico, metaforicamente impavido. Contro la sofferenza, per la sofferenza. La coltre ambient che lo circonda, lo modella, lo disfa e lo ritempra è l'intuizione - se non più felice - più genialmente oleografica, e ha il suo controcampo nei resoconti romanzati che accompagnano le canzone dai titoli monolessici, che Silberman ha accuratamente inserito nelle liner notes, con raro senso culturale. I vocalizzi di "Thirteen" sono della conterranea cantautrice neofolk Sharon Van Etten. (Ondarock)

lunedì 2 settembre 2013

Hungry Lucy – Pulse Of The Heart

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https://myspace.com/hungrylucy

Tracklist
1.Just Imagine
2.Pulse of the Earth
3.Balloon Girl
4.Bumble
5.Hill
6.Simone
7.Voyeur
8.The Standing Ones
9.Sunday Smiled
10.Wandering

Nessuna svolta e l’ennesimo lavoro di Christa Belle e War-N Harrison ancora una volta si offre a chi cerca l’easy listening al di fuori dei territori del music biz. Il gotico onirico ‘catchy’ ritorna in dieci immediate tracce sulla scia dei lavori precedenti composti da stesure alla tastiera tra future-pop slow e classicismi romantici su cui la voce di lady Christa si adagia delicata come nel passato.
Se in qualche traccia il combo avesse osato qualche soluzione alternativa proponendosi in nuove vesti sonore, sicuramente “Pulse Of The Earth” avrebbe molte chance in più; “Wandering” ne è l’esempio e la incontriamo sul finale d’album, orchestrata a meraviglia tra estasi eteree di tastiere ed archi, immediata nel suo essere un gothic pop come si incontra in altri progetti europei, su tutti Chandeen o nei connazionali Collide con cui Hungry Lucy ha più punti in comune.
Tra le dieci tracce si lasciano apprezzare le ballate più romantiche come “Baloon Girl” o “The Standing Ones” dove Christa si apre localmente (cosa che non succede spesso), dando un’ottima prova di un ugola che potrebbe avere l'audacia di proporsi più spesso al di fuori dei contesti vocali del sussurrato sentimentale.
“Sunday Smiled” è un altro momento in cui si evidenziano le qualità compositive che sfruttando la formula del duetto intimista tra le due voci creano la giusta atmosfera che corona la composizione strutturata pure sul duetto pianoforte/violoncello (anche se entrambi usciti dal synth ma che importa…).
Era il 2000 quando “Apparitions”  segnava il debutto del combo americano: a dieci anni di distanza dieci tracce per ricominciare un ciclo (in mumerologia il dieci significa la fine e l’inizio di un ciclo) e “Pulse Of The Earth” ha i semi di piccoli cambiamenti che nel futuro possono dare nuovi significati alla musica di Hungry Lucy, basta crederci fino in fondo. (soundsbehindthecorner)

domenica 1 settembre 2013

Riccardo Milani – Benvenuto Presidente!

Locandina Benvenuto Presidente!

Un film di Riccardo Milani. Con Claudio Bisio, Kasia Smutniak, Remo Girone, Beppe Fiorello, Cesare Bocci, Massimo Popolizio, Gianni Cavina, Omero Antonutti, Piera Degli Esposti, Patrizio Rispo, Michele Alhaique, Franco Ravera. Commedia, - Italia 2013.

Peppino è un bibliotecario col vizio delle storie e della pesca alla trota. Onesto e genuino, vive in un piccolo paese di montagna sognando un futuro migliore per il suo unico figlio, venditore rampante di un articolo sportivo. A Roma intanto destra, sinistra e centro discutono le sorti del paese e l'identità del nuovo presidente della Repubblica. A sorpresa e per provocazione viene eletto Giuseppe Garibaldi. Generale, patriota e condottiero italiano naturalmente defunto il cui nome e cognome è stato però ereditato da almeno cinque italiani. Peppino si fregia di quel nome e dell'età giusta per ricoprire la carica di presidente. Eletto suo malgrado, viene prelevato dalle sponde del fiume e condotto a Roma. Pescatore di trote e di sogni, viene risolutamente invitato a rinunciare al mandato. Ma al momento di pronunciare il discorso alla Camera, Peppino Garibaldi avverte l'opportunità di fare qualcosa e di cambiare finalmente il suo Paese. Rifiutate le dimissioni e con l'aiuto di un'avvenente vice segretario ricomincerà dagli italiani.
Da qualche tempo e qualche film in Italia il cinema ha perso quel riguardo per l'autorità che relegava il 'politico' in un genere impegnato, aprendolo all'evasione, mettendolo alla berlina, criticandolo duramente e consegnandolo alla libertà della fantasia. Se Paolo Sorrentino e Marco Bellocchio hanno trasfigurato la cronaca politica trasformandola in alta meditazione poetica, il cinema medio e popolare italiano cavalca l'onda antipolitica e sceglie l'uomo comune che si ritrova per caso alla presidenza. Esauriti bipolarismi(?), contrapposizioni nord/sud, risate, tarallucci e vino, in sala e in Parlamento scendono politici improvvisati mostrati nella loro umanità e celebrati come paladini del mondo. Pacifico e tenero progressista, Claudio Bisio diventa presidente per 'un giorno' della Repubblica italiana nella nuova commedia di Riccardo Milani, che smaschera cattivi e 'deviati' e propone al Paese un programma di rieducazione civica.
La sua inventata figura presidenziale è funzionale a fare satira e critica sociale, alludendo all'esistente o puntando chiaramente l'indice. Scritto da Fabio Bonifacci, Benvenuto Presidente, alla maniera di Viva la libertà, insedia un 'impostore' al potere producendo risate e gag, qualche volta efficaci.
Il segretario di partito di Roberto Andò e il presidente di Riccardo Milani però sono tutt'altro che figurine sprovvedute che gonfiano il petto e sorridono inetti nel loro abito istituzionale. Professore l'uno, pescatore l'altro, sembrano comprendere bene quello che gli accade attorno, sciogliendo il guinzaglio dei rispettivi consiglieri.
Nonostante alcune scene indiscutibilmente retoriche come il soccorso ai senzatetto e l'animazione in ospedale, la commedia di Milani funziona soprattutto per quella grossolana innocenza diffusa nel film e incarnata da Claudio Bisio, che nel monologo sanremese 'sugli elettori impresentabili' aveva anticipato la questione del degrado morale. Questione che riguarda tutti e che è stata causata da tutti. Parafrasando De Gregori: la storia (italiana) siamo (anche) noi, nessuno si senta escluso. Controcampo del campo, abitato dal presidente Peppino Garibaldi, è allora il popolo italiano (e sovrano), seduto attorno alla tavola apparecchiata e davanti alla televisione accesa, che ripete come un mantra l'idea di una classe politica marcia.
Al Paese reale, che si sente assolto, ai nuovi 'comici', che vorrebbero distruggere tutto senza pensare a costruire un luogo altro dell'amministrazione e delle relazioni umane, Milani risponde richiamando(ci) alla responsabilità civile. Lo fa attraverso la metafora dell'uomo qualunque costretto a misurarsi con i gravosi compiti del ruolo. Metafora che non sembra essere né neutra, né ingenua, aprendo all'intervento (e alla coscienza) individuale.

Il Voto di Pierolupo: 2/5
Ma che coltellata, un concentrato di banalità e luoghi comuni, scene stucchevoli o puerili, personaggi con comicità zero, sceneggiatura zero. Non sono riuscito ad arrivare alla fine.

Misophone - I Sit At Open Windows

I sit at open windows

https://myspace.com/misophone
Tracklist
1.Oradea At Dawn
2.Castles In The Sand
3.Run, Run, Run
4.A Ghost Of Right Wing America
5.Days Of Regret
6.Skylark In F
7.Lost March For The Dead
8.Rest Asleep
9.Bull Horn Instrumental
10.The Faces In The Window
11.Interlude 2
12.Cow Bell Blues
Vivere di rendita è una strategia che alla lunga rivela i suoi limiti, e questo è quello che sembra accadere anche agli inglesi Misophone, che a furia di pescare dall’enorme serbatoio di brani scritti negli anni passati riassemblandoli a ritmo serrato in nuovi album, forse iniziano ora a intravedere il fondo del barile. A circa sei mesi dalla pubblicazione del caleidoscopico “Be Glad You Are Only Human”, infatti, il duo Herbert-Welsh si ripresenta con un nuovo lavoro che somiglia molto a una raccolta di b-sides, conservando solo qualche barlume d’ispirazione in un complesso corale discontinuo e confuso.
“I Sit At Open Windows” è caratterizzato da un approccio sapientemente lo-fi, talora in grado di donare ai brani un sapore piuttosto amatoriale nella sua essenzialità (“Castles In The Sand”, “Days Of Regret”), più spesso arricchito da stratificazioni strumentali e rumorismi di ogni sorta. 
Tornano nuovamente alla ribalta le atmosfere inquietanti “da carosello degli orrori” che alimentavano la magnetica follia di “Be Glad You Are Only Human”, delineate qui dallo stillare cadenzato di glockenspiel e music box, dal sussurro spettrale della singing saw e dall’incedere plumbeo dell’organo (“Oradea At Dawn”, “A Ghost Of Right Wing America”, “Lost March For The Dead”, “Rest Asleep”). Imprevisti viaggi onirici in terre lontane (il tripudio balcanico a chiusura di “Rest Asleep” o le movenze orientaleggianti di “Bull Horn Instrumental”) e contaminazioni schizoidi di blues (“Cow Bell Blues”) contribuiscono a sbriciolare il lavoro in frammenti slegati, privi di un collante che li unisca, tenuti insieme forse solo dalla matrice psych-(più o meno)-pop che si rivela però dispersa in un quadro tutto sommato poco definito.
“I Sit At Open Windows” sembra conservare integra la raffinata sperimentazione del suo predecessore ed è pervaso da quelle stesse atmosfere di dolce inquietudine che caratterizzavano “Be Glad You Are Only Human”. In questo lavoro, tuttavia, i colori pastello della componente più pop vengono rimaneggiati in maniera non troppo convincente e se si escludono sporadici episodi (“Castles In The Sand”, “A Ghost Of Right Wing America”) le melodie passano quasi sempre in sordina, lasciando poca traccia di sé alla fine dell’ascolto.
Seduti davanti alla finestra, i Misophone se ne stanno emblematicamente a guardare fuori, catturando colori e suoni senza particolare trasporto emotivo. Speriamo che tornino presto all’aria aperta, a cavalcare sulla loro spaventevole giostra pop e a deliziarci con nuovi incubi al profumo di zucchero filato. (Ondarock)


 

Misophone - Be Glad You Are Only Human

Be glad you are only human

https://myspace.com/misophone

Tracklist
1.Cavalcade
2.The Motherless Moth Headed Bread Boy
3.Grey Clouds (Part 2)
4.Goodbye
5.As She Walked Out Of The Door
6.One Last Time (Part 2)
7.Be Glad You Are Only Human
8.I Sleep Like The Dead
9.Homeward, Gone
10.Spisske Nova Ves
11.Been In The Storm
12.I Hope I Might Be Wrong
13.Life Is Good

Il preludio alla paura, quell’anticamera di serenità quasi surreale, dilatata fino a risultare iperbolicamente ansiogena: è da qui che origina il fascino di tanta filmografia del terrore, ed è da qui che si può partire per comprendere meglio il magnetismo sprigionato da un album come “Be Glad You Are Only Human”, dove un pop che profuma di zucchero filato sale a farsi un giro sulle folli giostre della psichedelia e ne torna ammantato di un’aura oscura e inquietante degna delle migliori horror OST.
S. Herbert e M.A. Welsh sono un eclettico duo inglese che risponde al nome di Misophone: S. è un compositore di estrazione classica in grado di suonare più di venti strumenti diversi (e, a quanto si dice in giro, il numero sarebbe in continua crescita) mentre M.A., voce e banjo dei Misophone, è un artista-scrittore cui si devono le incursioni dei rumorismi più disparati oltre che i testi cupi dei brani, che a tratti sembrano uscire dalla penna di Jeff Mangum. Nel giro di soli cinque anni di attività, i Misophone hanno collezionato centinaia di canzoni e pubblicato ben dodici album (un tredicesimo è già in arrivo, a neanche sei mesi dal release di “Be Glad You Are Only Human”), dimostrando una vena creativa fervidissima e instancabile.
Come il precedente album “Where Has It Gone, All The Beautiful Music Of Our Grandparents? It Died With Them, That’s Where It Went...” (un titolo splendido, peraltro), la dodicesima fatica dei Misophone è stata licenziata in tiratura limitata da Kning Disk, una piccola label svedese che presta una cura straordinaria a ogni minimo dettaglio dei suoi album (tra cui lavori di Erik Enocksson, Peter Broderick e Library Tapes), partendo dall’estrema raffinatezza delle coverart fino ad arrivare al ringraziamento da parte dell’artista su ciascuna delle copie vendute, tutte numerate a mano.
“Be Glad You Are Only Human” si apre sul filo di una puntina da vinile, che si posa su un accorato lamento proveniente da un tempo e da un luogo lontani e che tinge già da subito di toni seppia le atmosfere dell’album. A questa ouverture fa seguito una serie di brani dalle melodie ariosamente pop, velate di un’ombrosa inquietudine che grazie al sapiente utilizzo di music box, organo, glockenspiel e honky tonk riesce a evocare una paura quasi irrazionale e per questo più che mai attraente (“The Motherless Moth Headed Bread Boy”, “As She Walked Out Of The Door”, “Spisske Nova Ves”), raggiungendo in più occasioni insospettabili picchi di tensione emotiva, come nella calma funerea della strumentale title track, nel crescendo balcanico (di stoker-iana memoria) di “Homeward, Gone”, o nella cadenza da walzer degli orrori di “I Sleep Like The Dead”.
M.A. Welsh infesta i brani di suoni stregati, che volteggiano leggeri come fantasmi conferendo un tocco di psichedelia e rimandando al lato più “leggero” dello sperimentalismo degli Olivia Tremor Control.
Forse è proprio nel binomio tra l’attrazione e il turbamento, sentimenti che scaturiscono all’ascolto in maniera quasi simbiotica, a risiedere il fascino questo piccolo gioiello di psychedelic pop, ed è proprio qui che sta la differenza principale con il precedente “Where Has It Gone...”, che condivide senz’altro con “Be Glad You Are Only Human” il pop pastello, le melodie malinconiche e gli accenni di psichedelia, ma che manca completamente della capacità di quest’ultimo di ipnotizzare l’ascoltatore tra i colori del suo spaventevole, mirabolante carosello.
L’album si conclude con “Life Is Good”, dove la voce gentilmente ovattata di M.A. Welsh sembra cedere il passo a quella oscura di malvagi Oompa Loompa cacciati dal paradiso di cioccolata di Mr. Wonka. Alla chiusa (apparente) del brano fa seguito un sussurro di piano e archi, che scivolano via in una sorta di vaporoso “to be continued”. E’ una promessa o una minaccia? Difficile dirlo, ma una cosa è certa: fortunatamente per noi, non è finita qui. (Ondarock)

giovedì 29 agosto 2013

Misophone - Another Lost Night

Another Lost Night

https://myspace.com/misophone

Tracklist
1.    Blue Bird
2.    I Don’t Like What I See
3.    Dirty Girl
4.    Another Lost Night
5.    Love Is A Blue Bottle Fly
6.    Held The Hand
7.    Let Us Go Then You And I
8.    Dawning Of An Old Era
9.    The Sincerest Form Of Flattery
10.    After It Got Dark
11.    The Sun Burns Our Skin
12.    North Cumbrian Ukulele Song
13.    To Lucy, Not Knowing Why

Ritornano a noi M.A.Welsh e S.Herbert, magico duo di strumentisti inglesi, di Carlisle, e lo fanno con un disco, "Another lost night" che, nel solito stile del duo, si presenta con una splendida copertina retro. Quinto disco ufficiale per loro, al loro attivo anche molti dischi autoprodotti nei primi cinque anni di attività (2002-2007) oltre ad una quantità industriale di canzoni in archivio, pronte per la pubblicazione, con una fertilità creativa alla maniera di altri splendidi devianti quali Neutral Milk Hotel, Guided by Voices e Magnetic Fields. Lo stile dei Misophone è tendenzialmente folk, ma non nella pura accezione del termine, ci sono tracce di psichedelia anni sessanta, i loro sono dischi fuori dal tempo, come del resto gli artworks sembrano suggerire. In questa ultima splendida opera sono presenti undici brani originali e due cover, una degli Eels, "Dirty Girl" l'altra del redivivo ed ormai rivalutato Daniel Johnston, "Held by hand": entrambe sono eseguite con un gusto superiore.
Come tengono a precisare i due inglesi le canzoni del disco sono state composte nel corso degli ultimi anni e finalmente ricollocate in questa deliziosa raccolta. Voci celestiali, soffici arrangiamenti ci accompagnano in questa ennesima notte persa, con strumenti come violini, ukulele, harmonium, harmonica, mellotron, che si intrecciano magicamente contribuendo a creare un atmosfera di pace ed oasi sonore incontaminate. Inutile citare un pezzo o l'altro, il disco va gustato nella sua totale uniformità, a livello di armonie vocali io ci ho ritrovato qualcosa dei misconosciuti Forever Amber e qualche aroma magico targato Pearls Before Swine. Se proprio mi devo sbilanciare After it got dark e I don't like what i see sono sinceramente bellissime, canzoni color pastello come la bruma autunnale, vere pennellate immaginifiche e chissà quanti  ascoltatori vi si avvicineranno, è il solito destino di questi magici perdenti. Puro nettare per palati ed orecchie stralunate e fuori dal tempo. (Distorsioni)

La Blanche Alchimie - La Blanche Alchimie

https://myspace.com/blanchealchimie

Tracklist
1. Sacred alchemy
2. Addiction
3. 1941
4. Little island girl
5. Aloe
6. The kingdom
7. Virgin bride
8. Contaminazione bianca
9. Lullaby (in the still of the night)

Due nomi a capo del progetto “La Blanche Alchimie”, il polistumentista Federico Albanese e la voce del gruppo, Jessica Einaudi. Per chi ha avuto l'occasione di sentirli dal vivo in giro per i palchi italiani (vedi Mi Ami, M.E.I. o tour di supporto ad Offlaga Disco Pax e Paolo Benvegnù), oppure, perché no, all'In The City Festival di Manchester, sa bene di chi parlo. Una volta incontrati, infatti, difficilmente il cervello avrà voglia di nasconderli in un angolo e così il gioco è fatto, vi sarete innamorati di questo duo e di quelle atmosfere tanto intime da farvi arrossire.
Malinconici, soavi e poeticamente crudi come un serial killer capace di toccare le corde più profonde dell'animo, con eleganza ti circondano di specifiche note in grado di provocare gli annessi rigurgiti emotivi dati dallo sconvolgimento interiore creato. Impossibile azionare il tasto eject fino a quando non sarà il silenzio ad ordinarvelo, ma a quel punto potrebbe essere troppo tardi, ci sarete dentro fino all'osso e quelle sensazioni vi seguiranno ovunque andrete riecheggiando nella vostra mente.
Archi, pianoforti, chitarre, rhodes, una voce profonda, delicata, dai lati queruli ma allo stesso tempo armoniosi, per un rock sperimentale dai tratti acustici, elettrici o più classici che si ispirano talvolta alla chanson francaise. Sono questi gli elementi cardine del concept sull'amore filtrato attraverso la sensibilità dei due artisti e, mediante tali, evitano di cadere in appeal legati al siffatto sentimento, universale sì ma molto spesso banalizzato e strumentalizzato fino a ridicolizzarlo.
Fissata finalmente su disco la prima parte del loro percorso, c'è da dirlo, un lavoro del genere ci voleva. (Liverock)

Silvia Avallone - Acciaio

Acciaio

Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Quando il corpo adolescente inizia a cambiare, a esplodere sotto i vestiti, in un posto così non hai alternative: o ti nascondi e resti tagliata fuori, oppure sbatti in faccia agli altri la tua bellezza, la usi con violenza e speri che ti aiuti a essere qualcuno. Loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare, ma la vita è feroce e non si piega, scorre immobile senza vie d'uscita. Poi un giorno arriva l'amore, però arriva male, le poche certezze vanno in frantumi e anche l'amicizia invincibile tra Anna e Francesca si incrina, sanguina, comincia a far male. Silvia Avallone racconta un'Italia in cerca d'identità e di voce, apre uno squarcio su un'inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più.

Alessandro D'avenia - Bianca Come Il Latte, Rossa Come Il Sangue

 Bianca come il latte, rossa come il sangue

Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno. Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.

Stefano Mordini – Acciaio (2012)

Locandina Acciaio

Un film di Stefano Mordini. Con Michele Riondino, Vittoria Puccini, Anna Bellezza, Matilde Giannini, Francesco Turbanti. Titolo originale Acciaio. Drammatico,  durata 95 min. - Italia 2012.

Anna e Francesca sono due quattordicenni piombinesi. Vivono in quartiere di case popolari i cui abitanti sono in gran parte operai delle acciaierie Lucchini. Anna ha un padre che ha lasciato il lavoro e ora cerca fortuna lontano dalla famiglia. Francesca invece ha un genitore troppo presente che forse abusa di lei. Le due ragazze vivono i primi turbamenti del crescere e, al contempo Anna (attraverso suo fratello Alessio e i suoi amici) sente forte la presenza della fabbrica e delle condizioni di vita che essa sottintende. Finché un giorno in città torna Elena, un tempo compagna di Alessio e ora suo dirigente. Intanto Anna ha conosciuto Mattia che ha diversi anni più di lei. Francesca si chiude ancora di più nel suo dolore.
Tratto dal romanzo omonimo di Silvia Avallone vincitore, tra gli altri, del Premio Campiello Opera Prima e tradotto in 18 lingue Acciaio è un film che ci ricorda la difficoltà del crescere inserendola in un contesto che, fino a poco tempo prima dell'uscita del film, sembrava essere quasi negato nel nostro Paese. Perché la cosiddetta 'classe operaia' sembrava essere uscita non solo dal cerchio degli interessi dei mezzi di comunicazione ma addirittura dalla realtà.
Piombino è una città la cui economia ha da circa un secolo ruotato intorno a quella acciaieria che un tempo si chiamava Ilva (il nome etrusco dell'isola d'Elba) e ora, passata di proprietà, è divenuta Lucchini: Tutto il film rinvia a quel fuoco che tempra il minerale destinato a divenire acciaio. Ma le vite delle persone sono molto più fragili. Si corrodono e si possono anche liquefare (vedi le due figure paterne) di fronte a quel calore. Ciò che riesce a resistere è l'amicizia tra Anna e Francesca che conserva una sua intima purezza che va al di là delle contingenze e che costituisce il cuore pulsante (sul piano narrativo) del film che su di loro concentra la propria attenzione.
Per due non attrici è un peso non da poco che viene sostenuto con una naturalezza che ha in sé tutti i fremiti e le contraddizioni di un'adolescenza che gli adulti spesso non riescono a comprendere.

Il Voto di Pierolupo: 4/5
Boh… tutti bravi gli attori ma alla fine dice poco, sinceramente mi aspettavo di più.

mercoledì 28 agosto 2013

Blackfield - IV

Dettagli prodotto

Tracklist
1. "Pills"   3:35
2. "Springtime"   2:24
3. "XRay" (featuring Vincent Cavanagh) 2:36
4. "Sense of Insanity"   3:24
5. "Firefly" (featuring Brett Anderson) 2:46
6. "The Only Fool is Me" (featuring Jonathan Donahue) 1:54
7. "Jupiter"   3:48
8. "Kissed by the Devil"   3:03
9. "Lost Souls"   2:57
10. "Faking"   3:33
11. "After the Rain"   1:26

Resiste ancora l’anima prog-pop di Steven Wilson attraverso questo nuovo lavoro dei Blackfield. Aviv Geffen ha voluto continuare questo progetto nonostante una presenza più marginale di Wilson (coinvolto solo in due brani e nel missaggio del disco). Geffen ha cercato di allargare gli orizzonti pop, forti già nel precedente Welcome to My DNA. Con X-ray incrocia la strada con il compagno di casa Kscope, Vincent Cavenagh, che con i suoi Anathema sta contribuendo ad abbattere le barriere del prog moderno. Notevole e preziosa la collaborazione con Brett Anderson dei Suede nel brano Firefly che dimostra tutte le potenzialità dei Blackfield. Un vero incanto i brani Pills e Jupiter, dove affiora la voce unica di  Steven Wilson. Questo sound aperto e armonioso dei Blackfield insegna la semplicità e la bellezza che dovrebbe suscitare una canzone pop ben fatta. Negli altri brani del disco Geffen dimostra che dietro la sua regia il progetto Blackfield può ancora scrivere delle belle melodie in bilico tra il pop e l’art-rock ed è giusto che continui a sopravvivere. (LostHighways)

Dusted – Total Dust

Total Dust

Tracklist
1. All Comes Down
2. (Into The) Atmosphere
3. Cut Them Free
4. Low Humming
5. Bruises
6. Pale Light
7. Property Lines
8. Dusted
9. Long It Lasts
10. There Somehow
11. Centuries Of Sleep (cd bonus track)

Se la tendenza generale in fatto di side-project è quella di non discostarsi molto dal sound dell’act madre, Brian Borcherdt non poteva prender maggiori distanze dai suoi Holy Fuck. Se per quest'ultimi si è parlato d'intricati groove elettro-rock, Dusted, tecnicamente un duo con Leon Taheny (producer per Owen Pallet sotto moniker Final Fantasy e batterista nei The Mountains, side-band di Sebastian Grainger dei Death From Above 1979), parla la lingua di un bedroom rock incrostato di fuzz, con toni grunge-ambient episodicamente persino pastorali, il tutto calato in una profonda introspezione lo-fi.
Anticipato dagli scenari di Coyotes, solo EP del 2008, parliamo dunque di suoni slabbrati e liriche pregne di senso di "acceptance" ai confini dell’alt-country, che rifuggono le comunioni ed, anzi, pretendono e mostrano l’isolamento del singolo come unica via per risolvere i problemi personali. Le canzoni di Total Dust riflettono la vita di Borcherdt “on the road” tra location di fortuna (fra cui figura uno studio non riscaldato in Nuova Scozia) e un equipaggiamento spesso in panne: il suono della chitarra (spettrale ed estremamente grezzo) viene da un amplificatore con tubi parzialmente danneggiati; le parti vocali sono state filtrate attraverso un amp portatile che si è rotto durante le registrazioni; le ritmiche ridotte a cimbali, tamburelli, sparsi colpi di grancassa e drum-machine con qualche linea tenue di synth ad aggiungere tensione statica qua e là.
L’insieme suona sgranato, ammantato, a tratti persino indistinto, eppure di grande consistenza emotiva, in subbuglio vitale come un Neil Young lo-fi con vocalità dreamy (Pale Light), od un Youth Lagoon rustico (Bruises), o ancora come un Atlas Sound sgangherato e spigoloso (Into The Atmosfere).
Total Dust è il tipico album la cui forza risiede nell'essenziale taglio wasted-beauty. In coda alla tracklist già senti che la miccia è esaurita ma sarebbe davvero un peccato lasciar scivolare nel dimenticatoio questi 30 minuti da potenziale replay infinito, perfetti nelle mattine d'arrendevolezza da hangover. (SentireAscoltare)

Okay – Huggable Dust

https://myspace.com/okaytheband

Tracklist
1 - My (3:11)
2 - Only (1:27)
3 - Tragedy (4:20)
4 - Nightmare (1:34)
5 - Loveless (1:59)
6 - Peaceful (2:00)
7 - Natural (2:48)
8 - Hot-Wired (1:50)
9 - Simple (3:42)
10 - Panda (4:00)
11 - Bellashakti (1:42)
12 - Beast (3:02)
13 - Poof (1:53)
14 - Truce (7:01)
15 - Pretend (2:57)
16 - Huggable Dust (3:26)
17 - Already (5:08)
18 - Asleep (6:30)

Ma è pop? O forse folk? E quell’elettronica? Magari s’avvicina piuttosto a musica per bambini… Qualcosa di davvero bastardo è Huggable Dust, indefinibile, nonostante i titoli dei brani, singole parole messe come pietre ad identificare le tracce, senza possibilità di fraintendimento.
Qualche dubbio sul fatto che Marty Anderson possa definirsi genio, o piccolo tale, invece viene. Deus ex machina di Okay, Marty sfoggia un’invidiabile poliedricità artistica. Capace di lanciarsi in composizioni di tanto svariata quanto apprezzabile natura. Bisogna anche dire che l’artista californiano sappia davvero ben giocare con i suoni, e si diverta pure parecchio. Huggable Dust ha forma incerta, sembra un trenino colorato da bambino: ogni carrozza una tinta differente; locomotiva gialla, poi vagone verde, rosso, blu e viavia che si rincorrono arrotolandosi… così come i brani che compongono il disco. Vivaci, imprevedibili guazzabugli di note senza troppe carte d’identità e passaporti. E se da una parte ci si diverte e si “esce” soddisfatti dall’ascolto, alla lunga, cosa rimane? Il punto di forza diventa quasi “scredito”, la mancanza di un profilo, di un contorno rende la voce “stregata” di Marty l’unico ricordo da “consegnare ai posteri”. (SentireAscoltare)

Gravenhurst - The Ghost In Daylight

The Ghost In Daylight

Tracklist
01. Circadian
02. The Prize
03. Fitzrovia
04. In Miniature
05. Carousel
06. Islands
07. The Foundry
08. Peacock
09. The Ghost Of Saint Paul
10. Three Fires

http://www.myspace.com/gravenhurst

La quinta fatica del genietto di Bristol si fa attendere cinque anni. Un tempo così ampio portava a immaginare chissà quali novità nel suono di Gravenhurst. Invece "The Ghost In Daylight" è a tutti gli effetti un passo indietro (ma non un passo falso).
L'iniziale "Circadian" sfoggia un riff acustico ripetuto a tempo col ride spazzolato, e rende da subito evidente come Talbot voglia condurre nuovamente l'ascoltatore nelle atmosfere eteree dei primi lavori: "In Miniature" è una sorta di "Scarborough Fair" calata nel disincanto del nuovo millennio, l'inquietante "The Foundry" è invece l'ideale continuazione di "Black Holes In The Sand", con bordoni ambientali che oscurano il suono pulito della chitarra acustica.
Spezza l'album la psichedelica "Islands", con cui Talbot si avventura momentaneamente in territorio trip-hop, mentre i sei minuti del singolo "The Prize" sono un buon riassunto delle varie anime di Gravenhurst (folksinger minimale, ma anche intenso post-rocker).
"The Ghost In Daylight" conferma che Nick Talbot riesce sempre a risultare interessante e poetico, persino nel suo album meno sorprendente. (Ondarock)

Luigi Lo Cascio - La Città Ideale (2012)

Locandina La città ideale

Un film di Luigi Lo Cascio. Con Luigi Lo Cascio, Catrinel Marlon, Luigi Maria Burruano, Massimo Foschi, Alfonso Santagata. Drammatico,  durata 105 min. - Italia 2012

Michele Grassadonia è un ecologista sensibile e integralista. Architetto palermitano, ha lasciato la Sicilia per la Toscana, dove abita quella che lui considera la città ideale, Siena. Inviso ai colleghi, vive solo in un appartamento spartano, dove sperimenta energie alternative. Una sera di pioggia tampona un'ombra e finisce contro un'automobile parcheggiata. Qualche chilometro dopo rinviene il corpo di un uomo riverso sull'asfalto. Chiamati i soccorsi, viene interrogato dalla polizia stradale sull'accaduto. La macchina ammaccata e alcune sfortunate circostanze, convincono gli agenti della colpevolezza del Grassadonia, che da soccorritore diventa indagato. È l'inizio di un'avventura paradossale e di una ricerca angosciata della verità.
Si respira l'aria di impegno civile del cinema di Francesco Rosi e l'indignazione e la tensione morale di Leonardo Sciascia nell'opera prima di Luigi Lo Cascio, attore autore che, alla maniera del personaggio che lo ha reso celebre (il Peppino Impastato di Marco Tullio Giordana), sogna di cambiare il mondo e di renderlo meno ingiusto e più pulito. Per questa ragione scrive e interpreta Michele Grassadonia, un uomo che crede nel valore dell'impegno civico e nella solidarietà sociale. Sempre dimesso, sempre gentile e alla ricerca della parola bella e appropriata, il protagonista viene precipitato in un incubo giudiziario che gli aliena amici e cittadini. Emarginato e diffamato, scoprirà a sue spese che la città ideale nasconde mostri dall'aspetto normale.
Con uno stile secco e asciutto, Lo Cascio svolge un tema robusto, denunciando l'incoscienza civile, le derive giudiziarie, i contratti sociali fondati sulla connivenza, l'indifferenza e la mancanza di pudore. La città ideale, con singolare forza simbolica, mette in schermo il trauma di chi si sente e si vuole 'diverso' rispetto alla cultura diffusa e condivisa da tutti. Lo Cascio individua quel trauma, lo mette a fuoco e poi lo indaga incarnando il suo personaggio, accompagnandolo con lo sguardo dentro la macchina della giustizia e dell'umana (in)comprensione. Posseduto dal proprio demone, l'ecologista Grassadonia coltiva sogni, speranze e illusioni che si spengono, proprio come accadeva ne I cento passi, sul volto di Luigi Maria Burruano, là padre piegato alla legge del più forte, qui (il)legale al servizio della Legge. Lo Cascio è bravo a costruire un film di attori e di sceneggiatura che ha il suo punto debole nelle digressioni, l'affittuaria ideale di Catrinel Marlon e il palafreniere negligente di Roberto Herlitzka. Diversioni che fiaccano, interpretandola, una drammaturgia altrimenti solida. Gli studi sulla cattura nei disegni della fanciulla (am)mirata e la conversazione intorno alla fuga di un cavallo chiosano e svolgono una storia che proprio nella sua imperscrutabilità, nella sua incoerenza e nella sua esasperata ricerca di giustizia e congruenza trovava (non)senso, ragione e originalità.
La città ideale resta tuttavia un debutto importante e maturo che nel dilagare di tanta bruttezza prende le parti della bellezza.

Il Voto di Pierolupo: 4/5
Bravo Lo Cascio, davvero un bel film, come rovinarsi la vita a causa delle proprie convinzioni ecologiche…

Giacomo Campiotti – Bianca Come Il Latte, Rossa Come Il Sangue (2012)

Locandina Bianca come il latte, rossa come il sangue

Un film di Giacomo Campiotti. Con Filippo Scicchitano, Aurora Ruffino, Luca Argentero, Romolo Guerreri, Gaia Weiss. Gabriele Maggio, Flavio Insinna, Cecilia Dazzi, Pasquale Salerno, Roberto Salussoglia, Michele Codognesi. Commedia, durata 102 min. - Italia 2012

Leo ha sedici anni, poca voglia di studiare e tanta di dichiararsi a Beatrice, la ragazza dai capelli rossi che frequenta il suo liceo. Perdutamente innamorato, prova in tutti i modi ad avvicinarla ma ogni volta non sembra mai quella buona. Esitante e maldestro, Leo chiede aiuto all'amico Niko e all'amica Silvia, invaghita di lui dalle medie e da una gita a Venezia. Inciampato dentro a un cinema e a un passo da lei, il ragazzo riesce finalmente a strapparle la promessa di rivedersi presto a scuola ma in aula Beatrice non tornerà più perché la leucemia le ha avvelenato il sangue e compromesso il futuro. Sconvolto ma risoluto, Leo decide di prendersi cura di lei e di accompagnarla nella malattia, allacciando con Beatrice una tenera amicizia che contemplerà il buio e la luce. Tra una partita di calcetto e un brutto voto da riparare, Leo imparerà la vita, la morte e l'amore.
Non è la prima volta che Giacomo Campiotti gira un film carico di morte che parla della vita. Otto anni fa con Mai + come prima aveva trattato la perdita corredandola a un periodo dell'esistenza qual è l'adolescenza, piena di novità e trasformazione. Allo stesso modo Bianca come il latte, rossa come il sangue è un percorso di formazione che affronta la crescita attraverso la morte. Al centro del film, trasposizione del romanzo omonimo di Alessandro d'Avenia, un adolescente che vede il mondo bianco e rosso, incosciente delle sfumature. Bianca è la paura della responsabilità da scansare e scaricare sui genitori e i professori, rosso è il desiderio di essere visto (e amato) come Charlie Brown dalla ragazza dai capelli rossi.
Alla maniera della Beatrice dantesca, di cui porta il nome e la grazia, la protagonista muove Leo a una vita nuova. Beatrice è iter a Deum, cammino verso dio, corsa (a perdifiato) verso 'fin'. Perché dio non è morto come canta Guccini o 'corregge' il T9, software di scrittura facilitata per sms che converte dio in 'fin'. Se è a dio che si affida Beatrice attraverso un diario, è a fin che rivolge le sue preghiere Leo chiedendo più tempo per quell'amore sbocciato tra attivismo e passività, tra energia senza sosta e inerzia, tra impazienza e timore di cambiare, tra la smania di prendere in mano la propria vita e l'inquietudine di diventare più visibili e ingombranti.
Bianca come il latte, rossa come il sangue ribadisce la sensibilità di Campiotti per l'adolescenza intesa come periodo di lutto, perché include un sentimento di vivo dolore per la fine dell'infanzia e del senso d'identità riparato e narcisistico. Ma a Leo spetterà in sorte un dolore più grande di quello di vedere scomparire il bambino che era prima. La sua ribellione passerà per la morte di Beatrice e approderà a un'immagine nuova di sé, a un'identità e a un corpo altri, in un mondo finalmente policromo. Leo farà esperienza della finitudine e frequenterà il dolore trasformandolo in amore dentro un film semplice come sanno essere le storie vere, quelle che nascono dall'urgenza dell'autenticità. Adolescenza, lutto, solidarietà che muove il desiderio comune di guarigione non trovano però nella messa in scena una commisurata corrispondenza, sfumando nella convenzionalità la sensibilità e la spontaneità che annunciavano.
Bianca come il latte, rossa come il sangue finisce per arrendersi agli schematismi di una narrazione dal respiro irrimediabilmente corto e prevedibile, che 'sentenzia' attraverso le battute del professor Luca Argentero e della paziente Gaia Weiss. Su tutto e tutti i picchi emotivi governano dispotiche le note dei Modà. Ridondanti e 'in levare' suturano il film, riempiendo insostenibilmente ogni fotogramma, eccedendo il bel sorriso di Filippo Scicchitano e gravando l'irriducibile leggerezza dell'adolescenza.

Il Voto Di Pierolupo: 3/5
La storia sarebbe anche bella ma che attori cani… Troppo scontato, Argentero professore piacione, mi ha un po’ fatto incazzare

martedì 30 luglio 2013

Please The Trees - A Forest Affair

Please the Trees | A Forest Affair

https://myspace.com/pleasethetrees

Tracklist
1    Getting Ready       
2    Hell On Earth       
3    She Made Love To The Moon       
4    Let The Wind       
5    New Heart       
6    Nobody No One       
7    When You Are Lost       
8    Branches       
9    Sleep       
10    Paint This City Green

Misophone - Before The Waves Roll In

Before the waves roll in

https://myspace.com/misophone

Tracklist
1.I Too Allow Myself To Dream
2.White Horses In A Yellow Sun
3.Hide From Reality
4.A Postcard From The Past
5.Old Unwelcome Guest
6.The Fear
7.In Search Of Beauty
8.A Mother's Last Word To Her Son
9.Backwards Up A Stream
10.In Search Of Beauty (Reprise)
11.There's Nothing Wrong With Love
12.The Waiting Game
13.The Year The Curtains Froze
14.Never Forget
15.Sleep Soundly In The Setting Sun
16.Don't Make Room For The Devil
17.Mountain Low
18.The Guillotine Walls
19.The Last Bastion
20.Before The Waves Roll In

Tutto è cominciato con una cassetta di “Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band”. Matt Welsh racconta di essere rimasto ossessionato fin da bambino da quei suoni colorati e bizzarri. E non c’è da stupirsi che la musica cui ha dato vita al fianco di Steven Herbert sotto l’egida Misophone sia sempre stata animata da quella stessa vocazione a un pop obliquo ed eccentrico.
Nella torrenziale discografia dei Misophone, però, “Before The Waves Roll In” non rappresenta un capitolo qualsiasi: “È finora il nostro album più grande in termini di portata e finalità”, afferma deciso Welsh. “È più orchestrale di qualunque altra cosa abbiamo realizzato prima”. Non a caso, si tratta del primo disco pubblicato dal duo per l’etichetta svedese Kning Disk dopo i due episodi che più di tutti hanno fatto brillare l’astro dei Misophone, “Where Has It Gone…” e “Be Glad You Are Only Human”, usciti tra il 2008 e il 2009.
Rispetto ad allora, il suono dei Misophone ha barattato un po’ della sua lucida follia per un’intimità sempre più votata al cesello melodico: ed in effetti, “Before The Waves Roll In” si presenta sin da subito come il disco più eelsiano di sempre del duo inglese. Lo si sente già nell’ouverture strumentale di “I Too Allow Myself To Dream”, con la sua inconfondibile atmosfera polverosa e nostalgica, e a confermarlo ci pensa l’intarsio di intermezzi sospesi (“A Postcard From The Past”) e sognanti bozzetti (“Hide From Reality”) che si dipana per tutto il disco, riportando le lancette dell’orologio ai tempi di “Blinking Lights And Other Revelations”. “Una specie di sigla televisiva perduta di un programma per bambini degli anni Cinquanta e Sessanta”, per usare la suggestiva definizione data da Welsh all’estetica musicale dei Misophone.
Poi, la voce della cantautrice americana Aubben Renée (meglio nota come Craven Canary) accompagna con la sua carezza la fisarmonica di “White Horses In A Yellow Sun”: “Some sailors live their lives alone/ Some boys never had a home”, sussurra tratteggiando in pochi versi tutto lo spirito solitario e vagabondo dei Misophone.
Il tono cantautorale della prima parte dell’album, che rimanda direttamente al precedente “Another Lost Night” lasciando da parte i profumi balcanici dei primi dischi del duo, non manca comunque delle tipiche stravaganze della premiata ditta Herbert & Welsh: “Ci sono più suoni campionati di quanti ne abbiamo mai usati in precedenza, comprese alcune strane registrazioni casalinghe e field recording provenienti dagli anni Quaranta e Cinquanta” spiega Welsh, quasi a voler ribadire l’apparenza fuori dal tempo del disco suggerita dall’artwork di Jockum Nordström.
Non manca nemmeno il consueto omaggio alla passione dei Misophone per le cover, già messa in mostra anche nel volume di OndaDrops dedicato allo psych-pop: in questo caso, “The Fear” dei Pulp si trasforma in una ballata spettrale, infestata di ectoplasmi di singing saw, mentre dalla soffitta del prewar folk arriva una versione da carillon di “A Mother’s Last Word To Her Son” di Washington Phillips.
A fare da contraltare all’uniformità iniziale dell’album, la seconda parte di “Before The Waves Roll In” torna a lasciare più spazio all’inventiva, a partire dall’irresistibile giostrina di minimalismo pop alla Daniel Johnston di “Don’t Make Room For The Devil”. Decisivo in questo senso è il contributo del trombone di Alone With King Kong, altro fidatissimo collaboratore dei Misophone, che proietta orizzonti di frontiera sul passo incalzante di “The Guillotine Walls”. Nonostante la quantità dei brani – e qualche dispersione di troppo lungo il percorso – “Before The Waves Roll In” riesce così ad offrire fino alla fine tutte le sfaccettature del suo classico caleidoscopio.
Tra il fischiettio “Old Unwelcome Guest” e l’orchestrina ragtime di “Mountain Low”, i Misophone catturano un brano dopo l’altro la loro personale collezione di racconti, riuscendo a dare ad ogni istantanea un risvolto di mistero grazie al più piccolo dei dettagli. Del resto, è proprio negli angoli più oscuri che si nasconde di solito la bellezza: “If you be in search of beauty/ Go where the beauty dwells/ And know that all the darkened nights/ One beauty will dispel”. (Ondarock)

ILikeTrains – The Shallow

The Shallows

http://www.myspace.com/iliketrains

Tracklist
01 – Beacons
02 – Mnemosyne
03 – The Shallows
04 – Water Sand
05 – The Hive
06 – The Turning of The Bones
07 – Reykjavik
08 – We Used to Talk
09 – In Tongues

La copertina del nuovo disco degli I Like Trains - o se preferite iLIKETRAINS - è fatta in modo da creare ambiguità: il titolo The Shallow, bello in grande piazzato in alto come se fosse il nome della band, e I Like Trains relegato in una posizione defilata, come se si trattasse del titolo dell'album.
Una volta schiacciato play, tutto torna al posto giusto e sappiamo bene cosa aspettarci da David Martin e soci che qui ripropongono le caratteristiche che ne hanno fatto una sorta di scheggia impazzita del panorama musicale in perenne movimento tra l'universo indie rock e l'universo post-rock.
The Shallow è un concept sull'alienante e deteriorante rapporto uomo-macchina sempre più macchina-uomo e non sorprende se ad aprire il disco ci pensano le partiture roboto-kraute di Beacons, che si tramutano in ritmiche che ricordano quelle dei primi Foals tenute a freno in Mnemosyne e nella titletrack. Come sempre è la voce mai troppo sopra le righe di David - alla lontana parente del baritonale Matt Berninger, di Tom Smith ma può ricordare anche Thomas Cohen degli S.C.U.M. - che ha il compito di disegnare pseudo-melodie sui freddi tappeti strumentali, a volte scarni e minimali, a volte invece epici e grandiosi.
La componente tipicamente post-rock è qui quasi assente - se non nei fraseggi di Reykjavik - per il resto sono astrutturati brani indie/post-punk impregnati di lenta tensione a farla da padrone. Produce Richard Formby (vedi Wild Beasts) creando atmosfere livide - gli ultimi The Twilight Sad non sono troppo distanti - che solo raramente regalano quel brivido che in più di una occasione viene cercato.
Al terzo album - escludendo l'EP d'esordio Progress Reform - gli I Like Trains continuano a non convincere al 100% ma si riconfermano un gruppo sincero e con le proprie coordinate musicali, incastonate in una proposta che difficilmente riuscirà a fare nuovi proseliti. (SentireAscoltare)

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