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venerdì 30 aprile 2010

Vic Chesnutt - North Star Deserter

North Star Deserter



Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/vicchesnutt

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Cantautorato dolente ed evoluzioni del miglior post-rock orchestrale: un’attrazione fatale tra due universi musicali paralleli, i cui prodromi si erano già manifestati in alcune opere prodotte dai collettivi canadesi gravitanti intorno all’etichetta Constellation, e che trova adesso consacrazione nella collaborazione di molti di quei musicisti con uno dei songwriter americani più validi e sensibili.
Prima di essere la semplice risultante dell’attività di un “supergruppo”, “North Star Deserter” rappresenta il punto d’incontro tra due percorsi artistici che, pur tra loro distanti, hanno seguito timidi passi di reciproco avvicinamento. Da un lato, Vic Chesnutt nell’ultimo “Ghetto Bells” aveva immerso l’essenzialità del suo songwriting in arrangiamenti orchestrali di epica drammaticità; dall’altro, i primigeni post-rocker canadesi avevano già più volte provato a “dar voce” alle loro fosche trame sonore, riuscendovi in maniera mirabile nel troppo poco considerato “Welcome Crummy Mystics” di Frankie Sparo, nonché nel più recente lavoro dei Silver Mt. Zion, “Horses In The Sky”.
Analogamente a quanto avvenuto lo scorso anno con l’album di Carla Bozulich, il “circolo chiuso” dei musicisti canadesi si apre ancora a decisivi contributi esterni da parte di artisti con storie e background musicali differenti, affiancando al duo Hangedup e ai Silver Mt. Zion al completo, non solo la voce e la scrittura di Vic Chesnutt, cui l’album è giustamente accreditato, ma persino un’icona del rock statunitense degli ultimi due decenni quale Guy Picciotto, qui impegnato in alcuni brani alla chitarra e ai field recording.
Le premesse derivanti dal numero e dalla qualità degli artisti che vi hanno partecipato sono pienamente rispettate in “North Star Deserter”, opera articolata e poliedrica, che non si limita alla mera sommatoria delle esperienze in essa raccolte, ma le coniuga in un unicum concettualmente coerente, seppur espresso nella prevalenza ora dell’approccio cantautorale “classico” di Chesnutt, ora di un’orchestralità sinistra e sovente distorta, ora infine dell’intensità drammatica di crescendo e spasmi elettrici.
Questi tre ideali capisaldi del lavoro, che in esso convivono intrecciandosi in maniera talvolta imprevedibile, sono chiaramente riscontrabili già nelle prime tre tracce e nel loro progressivo aumento di tono e complessità delle strutture compositive. L’album parte infatti in sordina con “Warm”, ballata dimessa ed essenziale, che non aggiunge molto a quanto da sempre espresso dal compunto cantautorato di Chesnutt; ma il contesto comincia a mutare già nella successiva “Glossolalia”, con il suo cantato sofferto, prima sostenuto da inserti d’archi distorti e pian piano affiancato da cori obliqui; infine, i sette minuti di “Everything I Say” danno luogo a una ballata orchestrale dalle atmosfere stranianti, scossa da spasmi elettrici ripetuti, che sembrano rappresentare la traduzione in un quadro cantautorale e vagamente bluesy dei crescendo lenti e impetuosi dei Godspeed You! Black Emperor, dei quali evocano l’alone apocalittico, raggiungendo una tensione drammatica ad essi paragonabile.
In tutta la restante parte dell’ora scarsa di durata dell’album, Chesnutt e i musicisti che l’accompagnano non si limitano a replicare le modalità espressive sopra individuate, ma le rimescolano in continuazione, rivelandone le tante possibili sfumature. Se si eccettuano, infatti, gli estremi rappresentati dalle pur efficaci ballate più sommesse ed essenziali (“Wallace Stevens”, “Over”) e dal claustrofobico sciamare elettrico “post-hardcore-blues”, scatenato dalla chitarra di Picciotto in “Debriefing”, l’album persegue con successo l’idea di sincretismo artistico ad esso sottesa, alternando l’inserimento, intorno a canzoni dalla chiara impronta cantautorale, di sobri arrangiamenti d’archi e pianoforte, loop elettrici, bozzetti di minimalismo acustico, substrati distorsivi uniformi e persino ipnotici accenni ambientali. Il risultato di queste continue transizioni sonore è particolarmente riconoscibile in brani come “Marathon”, “Fodder On Her Wings” e la magistrale “Splendid”, nei quali elementi eterogenei si fondono in compiuto equilibrio, coronando la scrittura e l’interpretazione vibrante del songwriter georgiano e allo stesso tempo segnando un ulteriore stadio evolutivo del percorso intrapreso dai musicisti canadesi in “Horses In The Sky”, album nei confronti del quale “North Star Deserter” si pone in evidente linea di continuità.
Così, i due universi artistici si incontrano e, senza collidere, si integrano in un album non ascrivibile all’uno né all’altro, ma dotato di una propria peculiare, tormentata identità, la cui forza espressiva fa rifulgere le doti dei suoi artefici, rivelando, traccia dopo traccia, dettaglio dopo dettaglio, un ibrido musicale denso di fascino e dai caratteri ormai sempre più consolidati. (Ondarock)
P.S. Vic Chesnutt muore il 25 Dicembre 2009, nella sua città, Athens (Georgia), dopo essere stato in coma per due giorni per ingestione di un mix di farmaci. Muore tra i debiti con la sua assicurazione per le incessanti e infinite cure mediche di cui ha avuto bisogno per tutta la vita.

Tracklist
1.Warm
2.Glossolalia
3.Everything I Say
4.Wallace Stevens
5.You Are Never Alone
6.Fodder On Her Wings
7.Splendid
8.Rustic City Fathers
9.Over
10.Debriefing
11.Marathon
12.Rattle







Corde Oblique - The Stones Of Naples

The Stones of Naples

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/cordeobliqueunofficial

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Corde Oblique è il progetto folk-acustico di Riccardo Prencipe, artista napoletano che, facendo leva anche sulla sua attività di storico dell’arte, è da sempre interessato alla creazione di una musica profondamente “visiva”, capace di raccontare e descrivere luoghi suggestivi. “The Stones Of Naples” è il suo terzo lavoro e prende il titolo dall’omonimo libro della storica dell’arte Caroline Bruzelius, che ha condotto studi sull’architettura medievale di Napoli. Un omaggio, quindi, a uno dei periodi storici più importanti della capitale del Sud. Un omaggio fatto di suoni che sono vere e proprie discese tra le ombre di un passato che fa sentire ancora forte la sua eco sulla quotidianità di una città tanto bella quanto problematica.
Coadiuvato da una schiera di musicisti, Riccardo solleva, così, il velo di una musica che, pur respirando il presente, bagna, come è giusto che sia, il suo volto tra le sorgenti del passato. Però, diciamolo subito, questi brani, pur nella loro delicatezza e nella loro appassionata dedizione verso sonorità scolpite nel tempo, non riescono, il più delle volte, ad andare oltre una certa convenzionalità. Per dire, giusto per mantenerci nello stesso ambito, non possiedono quella reale “profondità” e quella capacità di metabolizzare davvero il presente per riconsiderarlo alla luce del passato che abbiamo rintracciato nel disco dei Sinenomine.
Ad ogni modo, gli appassionati del genere saranno certamente a loro agio con composizioni come “La quinta ricerca” (un connubio di crepuscolarismo folk e sortite classicheggianti con tanto di dedica a Proust), la vulnerabilità e la fragilità di “Like an Ancient Black and White Movie”, la ballata in punta di piedi di “Dal castello di Avella” e la solare “La gente che resta”, impreziosita dalla voce di Claudia Sorvillo e dal clarinetto di Franco Perreca.
Accanto alla cover di “Flying” degli Anathema - che trova nel violino di Edo Notarloberti lo snodo cruciale per spingere ancora oltre, in fatto di intensità, un brano dai toni cupi e malinconici - trovano posto, poi, una “Barrio Gotico” (forse il momento migliore del disco) che, partendo dall’humus partenopeo, lo contamina con sonorità “altre”, in un gioco di rimandi che, finalmente, restituisce al disco un’impronta emozionale più “sentita”, meno scontata; il lirismo accorato di “La città dagli occhi neri” (dedicata a Napoli), la preghiera “irrisolta” di “Flower Bud” e una “Venti di sale” che, ispirata dal porto di Torre Annunziata, restituisce il mistero di quello che Borges definiva “un linguaggio indecifrabile”. (Ondarock)

Tracklist
1. La quinta ricerca
2. Venti di sale
3. Flower bud
4. Flying
5. Like an ancient black and white movie
6. La città dagli occhi neri
7. Nostalgica avanguardia
8. The quality of silence
9. Barrio Gotico
10. Dal castello di Avella
11. La gente che resta
12. Piscina Mirabilis





giovedì 29 aprile 2010

Elva Snow - Elva Snow

Elva Snow

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/elvasnow

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Lo strano caso del disco d’esordio di una band che non esiste più da tempo, si potrebbe dire così. “Elva Snow” è infatti la riedizione – merito della sempre meritevole label tedesca Glitterhouse – dell’ormai introvabile ep di otto brani che la band ha pubblicato nel 2005, con l’aggiunta di due inediti. Trattasi di una riedizione quantomai importante, soprattutto per il successo solista del cantante Scott Matthew che è poi germogliato da questo progetto, successo che inevitabilmente ha riaccesso la curiosità sul nome Elva Snow.
Quando Matthew si trasferisce dall’Australia, sua terra natale, a New York, sul finire degli anni Novanta, tramite un’amica in comune entra in contatto con l’ex batterista di Morrissey, Spencer Cobrin. I due capiscono subito di poter mettere insieme le proprie esperienze e passioni musicali in un duo che faccia del pathos la propria bandiera. Cobrin scrive le musiche, Matthew le liriche. Il risultato è un rock d’autore elegante e magnetico in cui la lezione dei maestri David Bowie e Brian Ferry incontrano le traiettorie di band come Tindersticks e Suede. La voce di Matthew è un incanto: forza e dolore capaci di alternarsi in un’altalena timbrica che pare sempre sul punto di rompersi, contrappuntati da arrangiamenti mai invadenti, con la chitarra a scandire tempi e modi di un’intensità a tratti soffocante. Pavement Kisses e Hold Me fanno parte di quegli ascolti difficili da dimenticare, almeno per chi ama l’estetica della sconfitta che fa cantare versi come “yesterday you say you started to pray/a desperate attempt to/cover every prayer with every god/and hope to god that it works” e “hold me hold me if you told me/that lover meant leaver/hold me hold me if you’d mould me/to whatever matters”. Could Ya e Shimmer, con l’apporto della sei corde di Paul Jenkins, sono efficaci tentativi di amalgamare una più decisa sezione ritmica con l’elettricità delle due chitarre per suonare compatti come può solo un rock’n’roll full band e lambire territori smithsiani. Stars è una ballata claustrofobica sorretta da chitarra acustica e tastiera che nel finale sembra fare il verso al Bowie di Space Oddity. Dei due inediti, è il pezzo posto in chiusura, Hollywood Ending, a colpire nel segno: solo piano e voce per una canzone d’amore che non lascia scampo.
Dopo queste canzoni Spencer Cobrin torna a Londra e Scott Matthew inizia una carriera solista che lo vede affrancarsi dalle atmosfere rock per quell’estasi da camera fatta di torch songs e ambiguità sessuale divenuta, dopo il successo di Antony & the Johnsons, una delle ancore di salvezza dell’indie all’epoca della crisi discografica. L’exploit di Matthew arriva con la colonna sonora del film di John Cameron “Shortbus” e la santificazione con il secondo album “There Is An Ocean That Divides…”, uscito lo scorso anno, contenente brani di bellezza quasi impossibile – chi conosce White Horse sa di cosa parlo. (Il Mascalzone)

Tracklist
1."Pavement Kisses"
2."Hold me"
3."Could ya"
4."Drinking & Driving"
5."Shimmer"
6."Live for love"
7."Eyesore"
8."Last Drink"
9."Stars"
10."Hollywood Ending"





mercoledì 28 aprile 2010

Get Well Soon - Vexations

Vexations

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/youwillgetwellsoon

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Comporre una sorta di concept sulle vessazioni dell'animo umano e sulle cure per superarle, con tanto di quartetti d'archi, fiati e citazioni di filosofia classica, sembrerebbe un proposito quantomeno ambizioso per un giovane di ventisette anni quale è Konstantin Gropper. Eppure questo "Vexations" è stato composto con relativa rapidità, se pensiamo che il disco d'esordio risale ad appena due anni fa. "Rest Now, Weary Head! You Will Get Well Soon" aveva imposto sulla scena europea la figura di questo polistrumentista tedesco, regalandogli alati paragoni soprattutto in riferimento all'"ambiente" canadese. Da segnalare è anche l'attività di compositore di colonne sonore, in particolare per il connazionale Wim Wenders ("Palermo Shooting", 2008).
Il riferimento cinematografico non è casuale, perché in "Vexations" l'aspetto figurativo non è assolutamente in secondo piano. Anche in questo Gropper è un personaggio del tutto herzoghiano (e non a caso il regista tedesco viene ricordato nella canzone "Werner Herzog Gets Shot"), intento a costruire una visione del mondo del tutto autoreferenziale. La sua visione, se non del mondo, della musica è ben definita: pare uno spettacolo riccamente imbastito, in cui gli unici spettatori siano gli spettri della propria mente.
L' ultimo lavoro di Get Well Soon è effettivamente di grande estro, con una cura mirabile degli arrangiamenti, quasi sempre roboanti, forse magniloquenti (si veda il campionamento del soprano che accompagna Gropper in "Red Nose Day"). Che questo "modo di fare", che ricorda piuttosto da vicino quello di Patrick Wolf, piaccia o meno, a essere particolarmente questionabile è la melodia dei pezzi, quasi mai di particolare ispirazione. Le sferzate fiatistiche, gli ariosi movimenti d'archi rappresentano così un propulsore aggiuntivo, laddove è però il carburante fondamentale a mancare. Quello che faceva del primo disco qualcosa di interessante.
Il carrozzone di Konstantin Gropper, vero e proprio spettacolo circense dalle tinte oscure e vagamente torbide, si dispiega su ben quattordici tracce. A spiccare, in un disco comunque non proprio scorrevolissimo, sono in realtà ben pochi momenti che si innalzano a fatica al di sopra del resto, zavorrato quest'ultimo anche da una sezione ritmica in secondo piano e di scarsa freschezza (ce ne si accorge subito in "Seneca's Silence" e "We Are Free").
La dolcezza sognante e funerea di "Red Nose Day" sembra un buon esempio, uno struggente e anche suggestivo viaggio nel tempo, col gracchiare del grammofono e la voce tenebrosa di Gropper che si alternano sullo sfondo di un paesaggio apparentemente immoto. Come spesso accade, il pezzo stenta a trovare una via d'uscita, una soluzione convincente. Un'eccezione è costituita da "A Voice In The Louvre": nonostante il giro melodico del tutto prevedibile, Get Well Soon riesce a infilare qualche cambio d'umore, tentando di far spiccare il volo al pezzo nell'intermezzo corale di solenne intensità e nel finale in cui il senso di pesantezza non scompare comunque del tutto.
L'immaginario creato da Gropper ricalca in gran parte ciò che viene espresso musicalmente: elegie circondate da fantasmi (Seneca), echi polverosi ("A Voice In The Louvre") funzionali a costruire il mondo decadente del Nostro, suggestioni gotiche di storie popolari dell'Est Europa ("We Are Ghosts"). Quest'ultimo pezzo, in cui le aperture orchestrali fanno intravedere, finalmente, un po' di leggerezza hannoniana, è uno dei pochi che sa affascinare, col suo dialogo tra testo e musica e la sua chiusura pirotecnica al coro nietzschiano di "And God is dead".
Sono prove che testimoniano che Gropper ha ancora qualche cartuccia da sparare: al termine di questo "Vexations", però, la tentazione di aprire la finestra per far entrare un po' d'aria fresca è forte. (Ondarock)

Tracklist
Disc 1
1. Nausea
2. Seneca's Silence
3. We Are Free
4. Red Nose Day
5. 5 Steps / 7 Swords
6. We Are Still
7. A Voice In The Louvre
8. Werner Herzog Gets Shot
9. That Love
10. Aureate!
11. We Are Ghosts
12. A Burial At Sea
13. Angry Young Man
14. We Are The Roman Empire
Disc 2
1. Teenage Fbi
2. Busy Hope
3. La Chanson D'Hélène
4. The World Needs A New...
5. Harmour Love
6. My Door
7. I'm Deranged
8. Good Friday











Midlake – The Courage Of Others

Courage of Others

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/midlake

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Non vogliamo essere accusati di plagiare i Radiohead. Penso che i Radiohead siano molto più vicini alle mie inclinazioni naturali rispetto a, che ne so, i Jethro Tull. Ascolto molto molto di più i Jethro Tull che i Radiohead in questi giorni, ma potrei scrivere dieci canzoni simili a quelle dei Radiohead prima di riuscire una che ricordi i Jethro Tull. Voglio suonare più come i Jethro Tull, ma non ci riesco proprio. E' una grossa lotta."
Questa confessione "a cuore aperto" è una buona introduzione a "The Courage Of Others", nuovo disco dei Midlake, band texana di culto e beniamini del pubblico alternativo sin dalla pubblicazione di "The Trials Of Van Occupanther", del 2006. Vien da rovinare il climax di una recensione, per dire: pur di realizzare i suoi intenti e sconfiggere le sue ossessioni, Tim Smith ha rinunciato a tutto, finanche tarpando le ali alle sue "inclinazioni". Impaludato nella bianca tunica di druido celtico, sembra quasi che abbia talmente interiorizzato l'immaginario dei suoi padri putativi da riuscirne un personaggio dei mondi evocati da questi ultimi. Va detto subito: se l'unico obiettivo dei Midlake era quello di perlomeno "assomigliare" ai Jethro Tull, probabilmente possono ritenersi soddisfatti.
"The Courage Of Others" è infatti una lunga litania ambientata tra le selve e le radure dell'Inghilterra medievale: il tutto suona limpido, sapientemente intrecciato; a volte pare di essere nel mondo fatato degli Espers, col suono del flauto che incornicia certi idilli psych-folk. Il rifiuto della contemporaneità che risuona nelle parole di Tim Smith (sotto il profilo strettamente musicale) abbraccia tutta l'opera, in una sorta di chiamata alle armi ecologista: "Great are the sounds of all that live", canta Smith nell'apertura affidata al maestoso giro melodico di "Acts Of Man". Il volteggio acustico di accordi, ricamato su reiterati hammer-on e slide, riporta alle costruzioni di Pentangle e Fairport Convention ("The Horn"). Un riferimento che può ingannare perché, dell'estro chitarristico di questi ultimi, rimane un po' poco: il disegno dei pezzi contiene sostanzialmente soluzioni sempre molto simili.
Ciò che cercano i Midlake non è progettare grandi architetture sonore (come nelle ultime band citate); non è neanche comporre canzoni nel senso tradizionale del termine, come avveniva in "The Trials Of Van Occupanther". L'attenzione sembra focalizzata nel comporre qualcosa di più compatto possibile, nel ripetere con invidiabile ostinazione l'atmosfera di cupa, vigorosa predicazione frammista a una più interiore nostalgia per un tempo che è passato e che forse non è mai esistito. Quest'ultimo aspetto era centrale nel disco precedente: là i Midlake erano però riusciti a lasciarlo trapelare tra le pieghe delle storie raccontate nel disco, invece di farne una sorta di manifesto fin troppo evidente della loro musica.
I Nostri riescono in toto a restituire ciò che hanno in mente come leitmotiv del disco, traducendolo con queste ballate dall'incedere possente, in cui l'arpeggio acustico viene ora accompagnato ora sovrastato dal rombo imponente dell'elemento elettrico e dalla cantilenante declamazione di Tim Smith. Così dall'impatto iniziale, che può essere inebriante, con l'antifona liturgica di "Acts Of Man", si scivola ben presto nella ripetizione, in un disco così tanto impegnato nel rimanere "composto" che l'unica traccia che tenta di discostarsi dal resto ("Fortune", dolce stornello bucolico) pare quasi fuori posto. E' un peccato perché, per una volta, si respira un po' di aria fresca, nonostante non cambino di molto gli ingredienti.
La varietà di registro e, soprattutto, di composizione delle canzoni che era un punto fondamentale di "The Trials Of Van Occupanther" scompare quasi del tutto in "The Courage Of Others": laddove i cambi di umore disegnavano in modo narrativo lo sviluppo delle canzoni nel primo dei due, nell'ultimo il meccanismo viene utilizzato assai meno. Il risultato è che spesso si assiste a qualcosa di prevedibile, macchinoso.
"The Courage Of Others" conferma, ciononostante, una band in ottima salute sul piano dell'esecuzione. In prospettiva futura, è auspicabile che l'esperienza di questo disco sia riuscita a liberarli da certe manie di ricerca di un sound particolare a tutti i costi, e che tornino a concentrarsi sulla costruzione delle canzoni, più che sul loro abito. A costo di sentirsi paragonare di nuovo a Thom Yorke e soci! (Ondarock)

Tracklist
1. Acts Of Man
2. Winter Dies
3. Small Mountain
4. Core Of Nature
5. Fortune
6. Rulers, Ruling All Things
7. Children Of The Grounds
8. Bring Down
9. The Horn
10. The Courage Of Others
11. In The Ground











John Grant - Queen Of Denmark

Queen of Denmark (Dig)

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/johnwilliamgrant

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Storia come tante nel mondo del rock, quella degli Czars: partiti giovanissimi da Denver in cerca di successo e riconoscimento, nonostante un discreto seguito di culto e il convinto supporto di Simon Raymonde della Bella Union, i quattro americani non sono mai riusciti a compiere quel salto di qualità necessario a lasciare il segno. E così, tra dissidi, litigi, problemi di ego e gli inevitabili abusi di sostanze stupefacenti ed alcool, la band è sparita nel nulla, lasciando una manciata di buoni album e qualche canzone di assoluta bellezza.
Chiunque abbia avuto la ventura di ascoltare almeno un brano degli Czars, comunque, non ha potuto far a meno di notare la straordinaria e inconfondibile voce, calda, profonda e commovente, del loro leader e cantante John Grant.
Dopo il definitivo scioglimento della band, John si è trasferito a New York e, nella speranza di esorcizzare i propri demoni e di non gettare al vento quanto di buono aveva costruito, ha suonato in giro per gli States, di supporto a grandi nomi del rock alternativo, quali i Flaming Lips e i Midlake. Proprio i texani Midlake, letteralmente incantati dai brani che Grant presentava dal vivo, hanno deciso che sarebbe stato un vero crimine se John e le sue nuove canzoni fossero rimasti sconosciuti a un pubblico più vasto. Così, per contribuire fattivamente alla "redenzione" (quanto meno musicale) del talentuoso cantante e musicista del Colorado, la band ha portato Grant a Denton e questi, nelle pause della lavorazione dell'ultimo album dei Midlake, ha avuto la grande opportunità di incidere il proprio esordio solista, con la coproduzione di Paul Alexander e Eric Pulido, rispettivamente bassista e chitarrista della band texana.
Registrato in due mesi e suonato da tutta la band di Austin, "Queen Of Denmark" è il risultato di questo sforzo congiunto e sembra davvero essere l'album che John Grant era nato per incidere. Emozionante e sfrontato, cinico e doloroso, l'esordio del musicista di Denver racchiude in sé tutto il talento e la poetica che John ha sempre dimostrato di padroneggiare, senza però mai riuscire, prima d'ora, a esprimere compiutamente. Se tutti gli album degli Czars, infatti, anche quelli più riusciti, erano pletorici ed eccessivamente statici nella loro proposta musicale, per il suo primo tentativo da solista Grant evita il trabocchetto di puntare tutto sulla ballata, genere che più si confà al profondo timbro della sua voce, e a canzoni malinconiche e accorate alterna brani più solari e vivaci, a creare proprio quell'equilibrio che, in precedenza, era mancato ai lavori della band di origine.
Va detto che la voce di Grant, il cui timbro baritonale caldo e profondo si arricchisce qui di sfumature e acquisisce una pulizia cristallina, è indubbiamente ancora l'elemento portante dell'intero album. Non è quindi un caso se l'apertura è consegnata ai numeri che riescono meglio a John: tre slow da brividi, a partire dall'intenso e malinconico folk rock di "TC And Honeybear", dove la sua voce si intreccia con quella di un soprano, per proseguire con "I Wanna Go To Marz", brano già rodatissimo dal vivo, che acquista nella dimensione di studio una profondità e un'intensità inusitate, e per terminare con quella che è probabilmente la più bella canzone dell'intero lavoro, "Where Dreams Go To Die", una ballata dal sapore seventies che riesce a essere appassionante e drammatica, senza essere affatto stucchevole o kitsch.
Uno dei maggiori pregi di "Queen Of Denmark", tuttavia, ciò che lo rende straordinariamente godibile e coeso, è la capacità che Grant mostra di saper cambiare più volte registro: nascono così brani come "Sigurney Weaver" o "Chicken Bone" distinti da ritmiche più sostenute e dal sarcasmo che, prepotente, traspare nei testi e nell'interpretazione vocale ("...And I feel just like Sigourney Weaver, when she had to kill those aliens...", "I wanted to change the world, but I could not even change my underwear...") e si passa nel breve volgere di un brano dal rag time di "Silver Platter Club", con tanto di accompagnamento di fiati, a canzoni che non avrebbero stonato in una radio FM degli anni settanta ("Outer Space").
Grant ed i Midlake riservano a ognuno dei brani contenuti in "Queen Of Denmark" le stesse cure e attenzioni che un padre finalmente benestante dedicherebbe a quei figli amati tenuti troppo a lungo in ristrettezze. E così gli abiti di cui tutte le canzoni vengono rivestite sono sfarzosi, eleganti, cuciti con perizia e nessun dettaglio è trascurato: un'incantevole piano, che in brani come "Caramel" o nella elegiaca title track punta diritto al cuore (ed il fantasma del miglior Elton John è dietro l'angolo), il flauto del frontman dei Midlake, Tim Smith, a punteggiare i passaggi più sognanti, i synth vintage a là ELO che conferiscono a tutto il lavoro, insieme al riverbero delle voci e alla loro continua sovrapposizione, un mood manifestamente anni settanta, come nella sostenuta "Sigourney Weaver" o nella sensuale e malinconica "It's Easier",  fino ad un dolce e delicato violino che spesso addolcisce e riscalda l'atmosfera, come accade nella voluttuosa "Leopard and Lamb", o nella già citata "Where Dreams Go To Die", dove il country di Patsy Cline (uno degli idoli di infanzia di John) sposa Peter Hammill.
Le canzoni di “Queen Of Denmark” parlano del disagio di essere un giovane omosessuale in uno sperduto paese della provincia americana , circondato da bigotti e osteggiato dalla famiglia di origine ("I’ve felt uncomfortable since the day that I was born..." canta Grant nel brano esplicitamente titolato "JC Hates Faggots"), del desiderio di essere qualcun altro, di incontri d’amore e incontri di sesso casuale, di paradisi artificiali e sogni fanciulleschi. E ognuno di questi argomenti è affrontato con sarcasmo, grazia, rabbia, sventatezza, lasciando alle spalle ogni ipocrisia e volutamente ignorando il rischio che tali tematiche (e il frequente turpiloquio) possano dare origine a una qualche censura.
Facile sarebbe stato per Grant cadere nel cliché, costruire un album intero su languide ballate strappalacrime e sfruttare quale esclusivo fil rouge la discesa agli inferi che ha caratterizzato la sua vita negli ultimi anni. Ma, fortunatamente, l'artista americano rifugge dai triti stilemi del genere e riesce a regalare un lavoro sincero e appassionato, dove non c'è spazio alcuno per l'autocommiserazione e per la disperazione. Un album, "Queen Of Denmark", che sembra più vicino alla redenzione che alla definitiva caduta. (Ondarock)

Tracklist
1. Tc And Honeybear   
2. I Wanna Go To Marz   
3. Where Dreams Go To Die   
4. Sigourney Weaver   
5. Chicken Bones   
6. Silver Platter Club   
7. It's Easier   
8. Outer Space   
9. Jc Hates Faggots   
10. Caramel   
11. Leopard And Lamb   
12. Queen Of Denmark











mercoledì 21 aprile 2010

Gogol Bordello - Trans-Continental Hustle

Trans-Continental Hustle

Okay, con quest’album non ci avviciniamo neanche un po’ al rock “convenzionale” di cui ci piace discutere, ma di questo gruppo di pazzoidi (tra l’altro giunti al settimo album) bisognava proprio parlarne. Perché qui? Vi chiederete. Perchè i Gogol Bordello sono l’anello di congiunzione tra l’est, quello della desolante periferia, urbana e non, Russa e Ucraina e l’ovest rappresentato, nella fattispecie, dall’odierna scena musicale newyorkese. Questo meltin’ pot di influenze e stili, dà vita ad una creatura totalmente nuova e innovativa, dove le melodie tradizionali dell’est e il punk si incontrano, alternando fraseggi tipicamente gypsy a ritmiche frenetiche o di stampo smaccatamente reggae e hip hop. E da qui si inizia: “Pala Tute”, è una canzone dal ritmo quasi ipnoticamente dance, già eseguita dal vivo con Madonna (che rappresenta una specie di “nume tutelare” del gruppo) nel suo scorso “Sticky & Sweet Tour”, e qui presentata nell’inconfondibile maniera pseudo confusionaria e assolutamente divertente dei GB. “My Companjera” continua il discorso sulla scia dei fraseggi gypsy punk, mentre “Sun Is On My Side” e “Rebellious Love” si presentano più meditative e sognanti, con ritmiche meno incalzanti ma forti di arrangiamenti totalmente “esotici”. Da “Immigraniada” in poi si alterneranno song più sparate a momenti più mid tempo, con l’ago della bilancia che pende un po’ di più dalla parte della velocità. Provate ad ascoltare la succitata “Immigraniada”, così come “Break The Spell”, “To Rise Above” e “In The Meantime in Pernambuco”, tutte cavalcate gypsy punk godibilissime e divertentissime, piene di coretti e melodie che, sicuramente, faranno muovere teste e piedi anche dei più scettici, e poi ne riparliamo. “Trans-Continental Hustle”, album decisamente superiore al precedente (e deludente) “Super Taranta”, è un album da consigliare a chiunque vuole far festa senza sosta, insieme alla band di Eugene Hutz, e senza pregiudizi di sorta; non certamente verso una differente provenienza geografica e neanche verso un genere musicale, per noi, ancora così “stravagante”. (Metallus)

Tracklist
1 Pala Tute
2 My Companjera
3 Sun Is on My Side
4 Rebellious Love
5 We Comin’ Rougher (Immigraniada)
6 When Universes Collide
7 Uma Menina Uma Cigana
8 Raise The Knowledge
9 Last One Goes The Hope
10 To Rise Above
11 In The Meantime In Pernambuco
12 Break The Spell
13 Trans-Continental Hustle

http://www.myspace.com/gogolbordello

http://www.mediafire.com/?zwn2zy4njwa

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