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mercoledì 11 marzo 2009

David Bowie - The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars

The Rise And Fall Of Ziggy Stardust

Music Research Engine

http://profile.myspace.com/index.cfm?fuseaction=user.viewProfile&friendID=17229523

Il Voto Di Pierolupo: 5/5

Tracklist
1. Five years
2. Soul love
3. Moonage daydream
4. Starman
5. It ain't easy
6. Lady Stardust
7. Star
8. Hang on to yourself
9. Ziggy Stardust
10. Suffragette city
11. Rock 'n' roll suicide

All'alba degli anni 70, in Inghilterra, il rock diventa un ballo in maschera. Sotto le sgargianti luci dei neon, impazzano i giovani "dudes": neo-fricchettoni che trasformano i barbosi raduni eco-pacifisti dei loro cugini hippie in uno sfrenato festival del kitsch . Che sia "peace and love", insomma, ma senza più vincoli ideologici o politici di sorta. Trionfano così il disimpegno, il travestitismo e l’ambiguità sessuale, in un profluvio di lustrini e paillettes, piume e rimmel, stivali e tutine spaziali. E' il tempo del "glam-rock" e di una nuova ubriacante Swingin' London. "Rock'n'roll col rossetto", lo definirà John Lennon. In questo carnevale delle vanità, David Bowie centra la maschera perfetta: Ziggy Stardust. Un alieno androgino dalle movenze sgraziate, truccato come una drag queen e munito di parrucca color carota. E' lui "l'uomo che cadde sulla terra", il messia ("a leper messiah") di una rivoluzione rock che dura una stagione sola, il tempo che passa tra la sua ascesa e la sua caduta ("the rise and fall"). E in questa parabola c'è tutta la rappresentazione dell'arte di Bowie: la messa in scena del warholiano "quarto d'ora di celebrità", l’edonismo morboso di Dorian Gray, la parodia del divismo e dei miti effimeri della società dei consumi e, non ultimi, i presagi di un cupo futuro orwelliano.
Ma andiamo per ordine. E' il 1972 e un anno prima David Bowie, già autore di prove tanto promettenti (il gioiello "Space Oddity") quanto discontinue, è riuscito finalmente a mettere a fuoco il suo sound in "Hunky Dory", summa di un nuovo vocabolario rock, al crocevia tra psichedelia malata à-la Velvet Underground, folk d'ascendenza dylaniana e - per l'appunto - glam-rock, sulla scia dei T. Rex di Marc Bolan. Ma per entrare appieno nell'epopea glam, serve un personaggio che colpisca l'immaginario del pubblico. Con un'anima rock e una storia da raccontare: quella di "The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars". Registrato dallo stesso ensemble di "Hunky Dory", la band ribattezzata per l'occasione "The Spiders from Mars" - Mick Ronson (chitarra e pianoforte), Trevor Bolder (basso) e Woody Woodmansey (batteria) - e il produttore Ken Scott, è un concept-album su ascesa e (auto)distruzione di un "plastic rocker", secondo la definizione dello stesso Bowie.
Romantico e voluttuoso, ambiguo e sfrontato, "extraterrestre", e quindi libero dai tabù sessuali che incatenano l’umanità, Ziggy polveredistelle è la quintessenza dello spirito glam. In lui convivono passato e futuro: figlio dell’aura decadente del cabaret mitteleuropeo anteguerra, è proteso nello slancio avvenirista dell’"Arancia Meccanica" di Kubrick (1971), le cui note iniziali apriranno gli show dello Ziggy Stardust Tour. E’ la maschera che incorpora tutti gli stereotipi del rock filtrati attraverso la lente grottesca del glam. Una caricatura del divo, destinato a essere idolatrato dal pubblico e stritolato dallo star-system. I suoi modelli sono i padri nobili del rock (Jim Morrison, Brian Jones, Mick Jagger, Lou Reed, Jimi Hendrix), ma anche personaggi improbabili, come Vince Taylor, il "Presley francese", rocker dei Sixties morto pazzo e suicida che Bowie citerà proprio come diretta ispirazione della sua "creatura", e The Legendary Stardust Cowboy, ovvero Norman Carl Odom, bizzarro bluesman americano che sarà omaggiato perfino con una cover ("I Took A Trip On A Gemini Spaceship") in "Heathen" (2002). La finzione scenica, però, prevarica presto la realtà e Bowie si incarna nel suo alter ego fino a immolarlo sul palco, donandogli l'immortalità. Già, perché è sulla dicotomia "effimero-eterno" che si gioca tutta l'opera. E il fatto che alla fine abbia prevalso il secondo (il disco è tuttora considerato un classico) è la dimostrazione che nel dandy londinese marketing e arte sono un binomio vincente e inscindibile.
Musicalmente, l'album è una raccolta di ballate romantiche e di rock'n'roll elettrificati e tiratissimi, al limite del punk. Musica da suonare a tutto volume, come raccomanda il retro della copertina. Nelle undici tracce viene sfoderato tutto l'armamentario glam: dalle voci sguaiate ed effeminate alle chitarre affilate, dagli arrangiamenti pomposi d’archi alle melodie struggenti. Ma in tanto melodramma Bowie non si prende mai sul serio: le sue canzoni sono uno sberleffo alla morale bacchettona, un saggio di trasgressione ironica e, spesso, di puro nonsense. Per aumentare il clamore, poi, confesserà al britannico Melody Maker: "Sono gay e lo sono sempre stato". Vero o falso, non importa: lo scandalo è creato, perché "fame, what you need you have to borrow" ("fama, quello di cui hai bisogno devi prenderlo in prestito"), come teorizzerà in "Fame" (1975).
La saga di Ziggy inizia con una profezia apocalittica. La Terra è sull'orlo del collasso, restano cinque anni prima della catastrofe: "We had five years left to cry in". E' la batteria di Woodmansey a dettare le cadenze di "Five Years", che parte come una ballata languida e si impenna in un magnifico crescendo, fino a esplodere nell'urlo isterico di Bowie. Cullato dalla rapsodia swing di "Soul Love", l'ascoltatore viene poi proiettato in un sogno a occhi aperti: "Moonage Daydream", l'Era lunare è arrivata e con essa il suo messia: "I'm an alligator, I'm a mama-papa coming for you/ I'm the space invader, I'll be a rock 'n' rolling bitch for you". Ziggy è un redentore, dunque, ma anche "una puttana", il simbolo del meretricio del music-business. Esaltata dallo stridulo falsetto di Bowie, dalle distorsioni da capogiro della Gibson Les Paul di Ronson e da un assolo di sax al fulmicotone, è una cavalcata elettrica folgorante e l'apoteosi definitiva del glam-rock. Ziggy è l'uomo delle stelle, invocato nella ballata spaziale di "Starman", una delle melodie più leggendarie di Bowie, nonché (forse) uno spunto per la trama del film di fantascienza "Incontri ravvicinati del terzo tipo" di cinque anni dopo. Il celeberrimo ritornello ("There's a starman waiting in the sky/ He'd like to come and meet us/ But he thinks he'd blow our minds") è un capolavoro, degno di stare al fianco dei classici dei Beatles. Perché come i quattro di Liverpool, Bowie possiede la rara dote di saper costruire da poche sillabe ciò che gli americani chiamano "hooks", gli ami da pesca, capaci di catturare per sempre l’ascoltatore.
Il melodismo bowiano trionfa nella svenevole "Lady Stardust", con le chitarre sature e le struggenti figure di piano di Ronson ad assecondare il canto da crooner del nostro. E' un omaggio a Marc Bolan (nel demo originario si intitolava proprio "A Song For Marc"), ma le "Femme fatales emerged from shadows" riportano direttamente al Lou Reed di "Velvet Underground & Nico". Porta invece la firma di Ron Davies l’unica cover del disco, "It Ain't Easy", sorta di space-country con un ritornello quasi gospel. A spezzare questo clima trasognato da musical anni Trenta provvedono un paio di scorribande proto-punk lanciate a velocità forsennata dai Ragni Marziani: "Hang On To Yourself", che per ammissione degli stessi Sex Pistols ispirerà "God Save The Queen", e "Suffragette City", inno alle prostitute con tanto di esclamazione post-orgasmica ("Ohhh, wham bam thank you ma'am!"), che farà da colonna sonora alle pantomime sessuali di Bowie e Ronson sul palco dello Ziggy Stardust Tour.
Divenuto ormai "Star", Ziggy può finalmente esser celebrato dal riff immortale della title track: la chitarra gracchiante di Ronson sottolinea la storia della stella che "strabuzzava gli occhi e agitava la chioma come alcuni gatti giapponesi", ma che è finita in pasto a un'orda di fan-carnefici: "Facendo l'amore col suo ego Ziggy fu risucchiato nella sua mente/ come un messia lebbroso/ Quando i ragazzi l'hanno ucciso, ho dovuto sciogliere il gruppo". Bowie si traveste da cantastorie appassionato, ma in realtà è dietro le quinte, a muovere i fili della sua creatura con aristocratico sarcasmo. Proprio come farà un anno dopo, quando, teschio di Amleto in mano, sceneggerà le gesta del suo "Cracked Actor" hollywoodiano in "Aladdin Sane". La conclusione naturale del disco non può che essere un "suicidio del rock and roll", consumato nel più teatrale dei modi, con una sigaretta in bocca ("Time takes a cigarette, puts it in your mouth") e implorando un ultimo gesto d'affetto ("Gimme your hands, cause you're wonderful"), che Ziggy mimerà negli show dal vivo andando incontro al pubblico. Gli Spiders From Mars allestiscono un altro terrificante crescendo, sfondo ideale per il canto allucinato e nevrastenico di Bowie. Sceneggiata da cabaret brechtiano, "Rock And Roll Suicide" è il commiato del disco e il brano con cui, il 4 luglio 1973, nel corso di un concerto all'Hammersmith Odeon di Londra, Bowie annuncerà la morte di Ziggy, tra le lacrime dei fan. I "dudes" resteranno a galla ancora per un po' (a loro Bowie dedicherà anche l'inno generazionale "All The Young Dudes", affidato ai Mott The Hoople), lo stesso Bowie si rifarà il trucco per un altro paio di dischi in quello stile (ottimo soprattutto "Aladdin Sane"), ma l'epopea glam si dissolverà rapidamente nella polvere di stelle del suo eroe.
Un paio di curiosità da segnalare: la copertina del disco ritrae Bowie con acconciatura stile Greta Garbo in una piovosa Heddon Street, a pochi metri da Regent Street, nel cuore di Londra; nella versione rimasterizzata su cd sono stati inclusi cinque bonus: "John I'm Only Dancing" e "Velvet Goldmine" (due eccellenti B side di 45 giri), l'inedita "Sweet Head" e i due demo di "Ziggy Stardust" e "Lady Stardust".
Irrimediabilmente datato, ma al tempo stesso foriero di tanto rock a venire, il melò di Ziggy Stardust abbatte gli sterili confini tra cultura "alta" e "bassa". Perché Bowie - come ha detto lui stesso - "è insieme Nijinsky e Woolworth". Chiunque negli anni abbia affrontato il rapporto tra performer e pubblico ha dovuto fare i conti con questo alieno in calzamaglia. "Era una creatura nata per essere idolatrata dai fan — rivelerà Bowie - la utilizzai servendomi dei semplici canoni del rock'n'roll". Un prodotto di marketing, insomma, ma studiato fin nei minimi dettagli. Come un'opera d'arte.
Per dirla con le parole di Bowie, "pensavamo d'essere esploratori d'avanguardia, rappresentanti d'una forma embrionica di post-modernismo". Un'arte "totale", in cui la musica si sposa con il teatro, il music-hall, il mimo, il cinema, il fumetto, le arti visive, ma senza mai perdere di vista l'obiettivo finale: la celebrità. "Diventerò famoso" aveva giurato lo stesso Bowie prima della pubblicazione di "Ziggy Stardust". Chi lo definisce "un disco commerciale", dunque, non si sbaglia. Si sbaglia solo quando pensa che arte e commercio non siano compatibili. Un abbaglio che diventa colossale quando si pronuncia il nome di David Bowie. (Ondarock)
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[youtube=http://www.youtube.com/v/KZFymsD8MQE&hl=en&fs=1]

martedì 3 marzo 2009

Pete Molinari - A Virtual Landslide

A Virtual Landslide 

Music Research Engine

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/petemolinari



- I miei hanno avuto nove figli. In casa ci pioveva dentro e il terreno intorno non era più grande d’un campo da baseball. Così ho deciso che potevo cavarmela da solo, anche per dare agli altri, alle mie sorelle, più possibilità. -
- Nessun fratello? -
- Uno, fino a undici anni. Ma ha beccato qualcosa ed è morto. Polio, credo -
- Alcune di quelle sorelle dovevano essere più grandi di te, giusto? -
- Già. Ma non hanno l’avventura nel sangue come ce l’ho io -
- Cristo, ragazzo, persino quell’affare che porti a tracolla sembra più grande di te -
- Vede, io non ho altro che questi vestiti e questo berretto. Le scarpe hanno la suola bucata. Ma finché avrò la mia chitarra, avrò sempre un posto dove andare -
- Sei un musicista, figliolo? -
- Si, signore. Il migliore che si sia mai sentito, dalla California all’isola di New York. Il mio sogno è suonare alla radio, sa quella stazione? WMS Grand Ole Opry., loro pagano bene. Ma prima devo incidere un disco. Voglio conoscere tutti i più grandi: Jimmie Rodgers, Gene Autry, Leadbelly, la Carter Family… -
- Figliolo, ma lo sai in che anno siamo? -
- Ma è ovvio, signore, nel 1934! -
Questo, grossomodo, l' immaginario proemio, tipo “I’m Not There” de’ noantri, al viaggio “eneico” intrapreso da Pete Molinari per ricongiungersi con la sua patria ideale. Dai prati erbosi e irrorati di pioggia del Kent ai vagoni merci sbrecciati e inondati di polvere nel mid-west degli Stati Uniti. Lui è come te lo immagini: piccolo e scuro, il viso e i capelli che ne tradiscono l’origine italo-egizia-maltese, un cappello di velluto a coste e una giacca a quadretti fini, un vero folksinger degli anni 30, insomma. Uno che a dispetto dei suoi 22 anni sembra aver deciso di ignorare recisamente quel cavo dell’alimentazione rimasto a penzoloni sul palco di Newport, il punk delle campagne almeno quanto i sincretismi dell’era elettronica. Neanche a parlarne.
Il suo è un immaginario dell’apres, del prima, di quando Dylan era solo un ragazzino dalla fervida immaginazione che ascoltava 78 giri seduto sul letto in camera sua, a Duluth, nel Minnesota, quando nel Village circolavano ancora le copie ciclostilate del “Voice” di Norman Mailer, quando il cervello di Woody Guthrie non sapeva di essere divorato dalla “Corea”, quando di Hank Williams ce n’era uno soltanto. Questa è la rosa dei venti musicali che spirano in “A Virtual Landslide”: a volte suona come un incrocio fra il primo Bob Dylan e John Denver (il valzer da festa del raccolto di “Dear Angelina”, “Sweet Louise”, cui dona oltremodo l’avverbio “absolutely”, l’elegiaca “Look What I Made Out Of My Head”), altre come un Hank Williams che sgranocchia pesche noci anziché antidolorifici (“Oh So Lonesome For You”, “God Damn Lonesome Blues”, l’aggettivo “lonesome”, non a caso, c’è e si sente, “Hallelujia Blues”); qua sembra un Leadbelly con le paturnie di Neil Young (“A Virtual Landslide”), là un Woody Guthrie scioltonell’ugola trasognata e fiabesca di Donovan (la marchin’song “Lest We Forget”); mentre il rock’a’billy di “I Came Out Of The Wilderness” e “Adelaine” sembrerebbe perfetto per il “Cosmo”, il locale di East St. Louis dove Chuck Berry intratteneva un pubblico entusiasta di neri suonando musica “bianca”.
Tre quarti d’ora di canzoni splendide per il piccolo “hobo” che si cela dentro ognuno di noi. L’avesse inciso, davvero, negli anni Cinquanta sarebbe un disco da 9. (Ondarock)

Tracklist
1 I Came Out Of The Wilderness
2 Oh So Lonesome For You
3 Adelaine
4 One Stolen Moments
5 There She Stills Remains
6 Halleluja Blues
7 Look What I Made Out Of My Head Ma
8 God Damn Lonesome Blues
9 I Don't Like The Man I Am
10 Sweet Louise
11 Dear Angelina
12 Lest We Forget
13 A Virtual Landslide (bonus track)
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lunedì 2 marzo 2009

U2 - No Line Of The Horizon

No Line On The Horizon

Music Research Engine

http://www.myspace.com/u2

Il voto di Pierolupo: 4/5

Cos'era lecito chiedere, cos'era lecito aspettarsi oggi dagli U2? I quattro ex ragazzi d'Irlanda erano finiti nelle sabbie mobili di una crisi - musicale, certo non di vendite - profonda: crisi di identità ("Pop"), di ispirazione ("All That You Can Leave Behind"), crisi addirittura come musicisti tout court ("How To Dismantle An Atomic Bomb"). Grossi problemi di forma e sostanza, laddove la prima era quella di una arena-band totalmente priva di stimoli su disco, con una vena melodica e una ricerca sonora divenuta talmente annacquata e didascalica, e la seconda quella di un leader maximo che aveva rotto la coesione e l'essenza della band, creandosi un'immagine e un ruolo assai distanti dalla musica. I cinque anni di silenzio antecedenti l'ultima nuova uscita sono sintomo di cosa? Lavoro, apatia, mero disinteresse?
Per rispondere agli interrogativi posti occorre premettere una considerazione semplice semplice: il trentennale degli U2 non può non risentire della perdita di smalto, di brillantezza, di irriverenza, insomma, della bruciante gioventù che aveva fomentato i loro cuori. "No Line On The Horizon" non può suonare come "War" o come "Acthung Baby" per ragioni strettamente fisiologiche ancor prima che musicali. Quel che era lecito chiedere a questo nuovo album era quantomeno che si smettesse di tirar fuori il paravento di un - impossibile - ritorno agli antichi fasti, si prendesse coscienza dei propri mezzi attuali e si iniettasse una gran dose di lavoro.
Fortunatamente, il primo elemento a risaltare chiaro, lapalissiano, una volta terminato l'ascolto di "No Line On The Horizon", è proprio la quantità - nonché la qualità - del lavoro impiegato nella sua costruzione. La sapiente cura con cui vengono cesellati i brani, i minori quanto quelli portanti, è tanto palese quanto la valenza delle scelte di produzione. La coppia d'esperienza Eno/Lanois porta un suono sì lambiccato ma capace di colorire adeguatamente i brani, nonché perfetto nel rinsaldarne l'ossatura. Quello che viene fuori è un disco di mezzi toni, di sfumature, di ampio respiro e grigio come la sua copertina, in cui tutto ciò che sono stati/hanno pensato gli U2 concima il loro presente.
Le tastiere liquide che aprono "Magnificent" fanno da anteprima a un bel tuffo nel passato, frutto della chitarra di The Edge che ritrova epiche ormai antiche su cui Bono si fa raffinato interprete, con la complicità di arabeschi e di una melodia cristallina. Un brano di bellezza immediata e di classica maturità. Altrove il trait d'union col passato si fa più labile: come in "Moment Of Surrender", un lungo gospel ricco di pathos, per organo, archi e beat elettronici, o come l'evocativa distesa "Fez-Being Born", in cui la melodia prende la linea del racconto per immagini, sostituendola alla logica strofa-inciso.
Il capolavoro di questo modus operandi, il brano meglio rappresentativo del nuovo corso, si chiama "Unknown Caller". Trattasi di uno splendido momento corale, in cui chitarra e sezione ritmica si limitano a incorniciare il lavoro di voci fino a quando viene lasciato spazio a un intensissimo solo di The Edge di rara profondità.
A questo punto sarà evidente che la sfacciataggine del singolo "Get On Your Boots" non è che un aspetto minore. Piazzato a centro album, quest'ammiccante funkettino è, con le compari "I'll Go Crazy..." e "Stand Up Comedy", solo un momento di libertà ("Hey sexy boots, I don’t want to talk about the wars between the nations"), di rock'n'roll in senso stretto - non a caso sono gli unici tre pezzi non firmati anche dai produttori - che, per quanto sarà inviso a parecchi fan, spezza senza per questo creare grossi cali di qualità. Perché, alla fin fine, il valore di "No Line On The Horizon" trova la sua conferma proprio nei numeri base, come la solida e potente "Breathe" o come il crescendo della title track. Brani che mantengono la giusta rotta nell'attesa dei momenti più aulici, tra cui non può non citarsi la deliziosa "Cedars Of Lebanon", suadente ballata sottovoce che chiude il disco con il miglior testo del lotto (testi che, ad onor del vero, globalmente non brillano).
"No Line On The Horizon" segna il ritorno degli U2 alla musica, senza che per questo si debba parlare di grande stile. Lo stile è piuttosto finalmente consapevole, finalmente maturo, finalmente faticato, i pezzi sono scritti e arrangiati con classe e applicazione se non passione, in maniera tale da superare i limiti d'età. Il risultato complessivo riporta ai tempi di "Zooropa" e, detto francamente, si tratta di un mezzo miracolo. (Ondarock)

Tracklist
1. No Line On The Horizon
2. Magnificent
3. Moment of Surrender
4. Unknown Caller
5. I’ll Go Crazy If I Don’t Go Crazy Tonight
6. Get On Your Boots
7. Stand Up Comedy
8. Fez – Being Born
9. White As Snow
10. Breathe
11. Cedars Of Lebanon





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