Tracklist
1.Prologue
2.Kettering
3.Sylvia
4.Atrophy
5.Bear
6.Thirteen
7.Two
8.Shiva
9.Wake
10.Epilogue
http://www.myspace.com/theantlers
Antlers, base a Brooklyn, è l'idea del cantautore Peter Silberman. Nel suo primo album, "Uprooted" (2006), la sua rielaborazione della canzone folk intimista arriva a una sorta d'illusione acustica tra Syd Barrett e la folktronica, con corredi sonici di tutto punto (talvolta noise-psych, talvolta silenti). Il secondo tentativo "In The Attic Of The Universe" intuisce la direzione, grazie all'utilizzo di campionamenti, live electronics, effetti lo-fi, strati sonici crepuscolari, misture melodiche, e nuovi aromi psichedelici. Il suo uso del drone, peraltro in linea con le tendenze contemporanee, rimpiazza del tutto gli arrangiamenti e le orchestrazioni tradizionali.
Ormai attorniato in pianta stabile da Darby Cicci e Michael Lerner, Silberman progetta "Hospice", con cui traduce integralmente quelle intuizioni a progetto d'insieme, coagulando tanto i nuovi membri quanto l'idea-album. Spartito tra angelica contemplazione e cura certosina, il disco lascia sgorgare liberamente la densa schizofrenia che ne consegue, come in "Kettering" (suoni aerei miscelati a piano ovattato insistente, su una nenia depressa pseudo-soul alla Antony), ma mette anche in chiaro il suo fiuto per orchestrazioni stratificate e costrutti armonici disorientanti.
Ne è prova l'isterismo con cui fonde folk melodico e shoegaze in "Sylvia", alternando un pianissimo di distorsioni acquatiche e mormorio Drake-iano a un fortissimo sgolato Slowdive-iano, sopra un acceso battito marciante, o come "Bear" costruisca una ficcante cantata partendo da un semplice, intenso carillon da bebè (quasi una fusione tra un'accorata melodia di Cat Stevens e la pulsazione lisergica dei Flaming Lips). O come nebbie di live electronics, feedback lirici di chitarra e ondate drone ribollenti coesistano nell'ipnotico ambient di "Thirteen" (per poi sfumare in un toccante recitativo d'opera Cat Power-iano per soprano asmatico e piano melanconico).
Anche più d'effetto è il commosso, carezzevole carosello psicotico di "Two", uno strabiliante crescendo annunciato da un alacre strimpellio e da un flusso di coscienza in falsetto bisbigliato, culminante in subissi di distorsioni garage-rock, accordi di piano in sovratono maestoso e contrappunto di fiati medievali (a raggiungere un'estasi degna dei tardi Talk Talk).
Continuando ad esplorare la sua tavolozza sonica, Silberman impagina lo stratificato, commosso, poliritmico pop da camera di "Shiva", e la spettrale carola senza parole del "Prologue", costretta in una membrana oscillante di elettronica distorta, echi e loop. Silberman è solo nell'"Epilogue", un madrigale voce-chitarra che scompare improvvisamente in un arcano frattale di organo, virtualmente mutante all'infinito.
Le sue torture sentimentali più difficoltose sono organismi autonomi che torreggiano a metafora dell'album, e pure riescono a implementare una decisa qualità onirica. "Atrophy", otto minuti, procede per continuum di beat minimal con cui avvicenda un rullante marziale, una canto-miraggio, rintocchi gravi e radiazioni atmosferiche che si alzano e incorniciano un contrito tema di fuga barocca-new age che farebbe rosicare Mark Kozelek. Una muraglia acuminata di dissonanze elettromagnetiche lo polverizza in sfaceli di cristalli elettronici, fino a spegnersi in uno stornello acustico. I nove minuti di "Wake" sono meno arditi ma anche più comunicativi, secondo armonie barbershop deformi, sfocate, che si confondono pian piano con l'organo, fino a sfociare in un glorioso slogan corale, paradisiaco e bandistico.
Lungi dalla mera imitazione degli Arcade Fire, il disco ne risale direttamente alla stessa fonte, ricombinando elementi classici o artificiali a scopo salacemente poetico. Ma anche disperatamente cinico, metaforicamente impavido. Contro la sofferenza, per la sofferenza. La coltre ambient che lo circonda, lo modella, lo disfa e lo ritempra è l'intuizione - se non più felice - più genialmente oleografica, e ha il suo controcampo nei resoconti romanzati che accompagnano le canzone dai titoli monolessici, che Silberman ha accuratamente inserito nelle liner notes, con raro senso culturale. I vocalizzi di "Thirteen" sono della conterranea cantautrice neofolk Sharon Van Etten. (Ondarock)
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