Un film di Paolo Pisanelli. Documentario, durata 93 min. - Italia 2010
Nella notte fra il 5 e il 6 aprile 2009, in soli ventidue secondi, i territori dell'aquilano conoscono distruzione, spaesamento e macerie a causa di un terremoto di magnitudo devastante. Muoiono più di trecento persone, fra cui molti studenti universitari, e sono più di cinquantamila gli abitanti rimasti sfollati. Il governo dichiara lo stato di emergenza e, in pochi giorni, la protezione civile e le forze dell'ordine allestiscono delle tendopoli, laddove il centro cittadino viene recintato e chiuso al passaggio. Mentre il tempo passa, il silenzio regna sovrano, sul paesaggio e nella testa delle persone, e quel che resta del centro storico de L'Aquila somiglia sempre più a una città fantasma popolata solo da cani e gatti randagi. A muoversi velocemente sembra essere solo una grande macchina mediatica allestita attorno a un G8 e a un piano per la costruzione di nuovi appartamenti allestiti a tempo di record. Ma un terremoto “non è solo un problema edilizio, ma soprattutto una tragedia sociale, culturale e identitaria”. Se il terremoto di Lisbona del 1755 insegnò agli illuministi a diffidare del positivismo e della teodicea, il terremoto de L'Aquila del 2009 sembra più configurarsi come un violento monito contro la mediatizzazione della tragedia e la speculazione televisiva del dolore. A farsi carico dell'eredità di Voltaire è soprattutto il cinema documentario, che prima con Draquila ha portato le macerie della politica italiana fin sul tappeto rosso di Cannes, e adesso con Ju tarramutu propone “un viaggio nei territori della città più mistificata d'Italia”. Entrambi i documentari partono infatti dal regime delle immagini confuse e contraddittorie sulle conseguenze del terremoto per mostrare quel che sta sotto la polvere, ma i rispettivi titoli sono già sintomatici del loro differente operare. Draquila è una crasi, un gioco linguistico in cui la retorica della satira e dell'orazione catilinaria è funzionale a elaborare un j'accuse diretto e mirato contro il capo del governo e il primo funzionario della protezione civile. Il dialetto di Ju tarramutu ci pone invece all'interno della cultura locale, adottando un punto di vista in linea con lo sguardo della gente sfollata. L'idea di Pisanelli è infatti quella di utilizzare gli schermi delle televisioni solo come raccordo, una sorta di didascalia per sottolineare e sintetizzare il passare del tempo, con il proposito di errare ed esplorare fra parole e immagini del territorio più che di indagare ombre e interessi maleodoranti. Così, fin dal principio, il racconto del terremoto si compie attraverso un percorso di sensazioni visive e sonore. Una conta dei secondi che sono bastati a squarciare il profilo della città e le certezze dei suoi abitanti ci introducono a un insieme di elementi differenti, che vanno dalle testimonianze dei cittadini ingannati dalla potenza della natura e dall'incompetenza delle istituzioni, all'estasi visuale della contemplazione di un paesaggio agricolo su cui incombe tutta la pesantezza del silenzio. Perimetrare i luoghi e pedinare i cittadini è ciò che serve a Pisanelli per contenere e affrontare la portata della tragedia. Per il resto, si avvale della collaborazione degli Animammersa, un gruppo di artisti aquilani che ha trasformato la rabbia dei cittadini in un caldo spettacolo di canti e balli popolari. I loro testi e la loro musica danno forma e anima ai vari frammenti di Ju tarramutu e permettono di entrare in empatia con il risveglio e la ribellione di quegli aquilani indisposti a diventare strumento di propaganda politica. Tarante e rintocchi di campana ci accompagnano così lungo il racconto suggestivo di una lenta rinascita, una parabola ancora piena di crepe da suturare e di rovine da scavare. Come testimoniano i titoli di coda con le immagini-appendice della manifestazione di protesta del 7 luglio 2010, in cui la violenza di stato fuoriesce dalla forma simbolica della cornice televisiva e si concretizza nei colpi del manganello.
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