Link & Review Research

Questo è un motore Google per la ricerca di recensioni e link, copia e incolla autore e titolo

This engine is a Google search for reviews and links, copy and paste title and author

Ricerca personalizzata

sabato 24 luglio 2010

Seawolf - Leaves In The River

Leaves in the River

http://www.myspace.com/seawolf

http://www.mediafire.com/?nybddjy3bwt

Tracklist
1. Leaves in the River
2. Winter Windows
3. Black Dirt
4. Rose Captian, The 
5. Middle Distance Runner
6. You're a Wolf
7. Song for the Dead
8. Black Leaf Falls
9. Cold, The Dark & The Silence, The
10. Neutral Ground





giovedì 22 luglio 2010

Lighting Dust - Lighting Dust

Lightning Dust

http://www.myspace.com/lightningdust

http://www.mediafire.com/?anaetmczkvm1cz2

Ormai folk e figli stanno facendo incetta di proseliti un po’ ovunque. Devendra aveva aperto la strada, Cat Power ne era la stella, Joanna Newsom (“Higway” potrebbe essere inserita in quel gioiello che risponde al nome di “Ys)”, nell’anno passato, ha rivelato al mondo che anche nel 2006 con un’arpa si può essere originali. Ma quel filone dai contorni vagamente psichedelici trova piena consacrazione nei lavori degli Espers. Potrà sembrare dunque facile operazione comparare i Lightning Dust a quel gruppo di Philadelphia che ha letteralmente catturato i cuori degli ascoltatori più attenti. L’equazione però non è così semplice, perché di fondo c’è una differenza sostanziale: l’approccio. Se da un lato infatti gli Espers risultano autori di un paio di album che possono definirsi sicuramente sunto programmatico di quel movimento psych-folk, i Lightning Dust sembrano più proiettati verso l’album-compitino, quello che l’alunno fa controvoglia e grazie al quale non riesce a strappare nulla più che un sei. E prontamente verrà ammonito dalla maestra per la mancata cura, il mancato impegno, con i classici ammonimenti del caso.
Ecco che cosa è questo omonimo. Un album che strizza l’occhio al lato intimista, un album che presenta caratteristiche affini ad altre migliaia di dischi e che pare inevitabilmente destinato a finire in quel pozzo senza fondo di lavori, non dico brutti, ma trascurabili sì. Avrete ben capito che qui l’originalità rasenta lo zero. E ben sapete pure che sul fatto che la Jagjaguwar non sbagli un colpo ci si potrebbe mettere la mano sul fuoco, ma effettivamente c’è la sensazione che questa volta qualcosa non torni. Amber Webber e Joshua Wells, già membri dei Black Mountain, danno alle stampe il loro debutto, dopo essersi staccati dal gruppo madre. E se nell’omonimo album del gruppo canadese erano le spinte hard-rock a farla da padrone, ora la dimensione si fa decisamente diversa. L’intimità è il fulcro. E il duo pare volercelo spiegare accompagnandoci per le vie della dolcissima “Castles And Caves”.
Piccoli bozzetti impressionisti vengono tracciati da un organo in “Listened On”, mentre il breve (e banale) pop-country  di “Wind Me Up” sa di muffa quanto pochi altri. E dispiace davvero trovarsi di fronte al teatrale incedere di “Jump In”, che non fa altro che rafforzare le perplessità, precedentemente esposte, o quando ci si imbatte in  quelle note zingare di “Heaven” che toccano i precordi dell’animo.
La qualità generale, seppur non pessima, viene messa in costante pericolo dall'ombra del "già sentito" e i dubbi di scopiazzature varie si rincorrono. Duole il cuore a sentire dischi del genere. Dischi tutt’altro che censurabili e/o stroncabili, ma che paiono lasciati al loro destino, incompiuti. (Ondarock)

 Tracklist
1. Listened On
2. When You Go
3. Wind Me Up
4. Take Me Back
5. Jump In
6. Heaven
7. Castles And Caves
8. Highway
9. Breathe
10. Days Go By





martedì 13 luglio 2010

Her Name Is Calla - The Heritage

The Heritage

http://www.myspace.com/hernameiscalla

http://www.mediafire.com/?efzvm32gxz1

Tracklist
1. Nylon 6:30
2. New Englan 9:14
3. Paying For Your Funeral 5:02
4. Wren 5:21
5. Motherfucker! It's Alive And It's Bleeding 8:10
6. Rebirth 17:03





Giorgio Canali & Rossofuoco - Nostra Signora Della Dinamite

Nostra Signora Della Dinamite

http://www.myspace.com/giorgiocanali

http://mediafire.com/?qyjrz4owvna

Giorgio Canali & Rossofuoco - Quello Della Foto
Ditemi qualcosa di più
Vorrei avere , per favore, notizie di me
Datemi un indizio in più
Qualcosa che mi aiuti a capire
Che fine ho fatto, che cosa mi è successo di nuovo,
Che cosa ho fatto, dove mi trovo
.. ..
Io non esisto, io sono il vuoto,
sono quello tagliato via nella foto
Io sono il margine, sono la sponda
Io sono quello che resta all’ombra
Io sono il mai, Io sono il senza
Io sono l’inesistenza
Io sono il bujo, non ci sono e non c’ero
Io sono la dissolvenza al nero
.. ..
Ditemi qualcosa di più
Qualcosa che mi aiuti a capire
Datemi un indizio in più
Vorrei sapere
Che fine ho fatto, che cosa mi è successo di nuovo,
Che cosa ho fatto, dove mi trovo
Chissà che faccia ho adesso
Che cosa mi è successo
.. ..
Io non esisto, io sono il vuoto,
sono quello tagliato via nella foto
Io sono il margine, sono la sponda
Io sono quello che resta all’ombra
Io sono il mai, Io sono il senza
Io sono l’inesistenza
Io sono il bujo, non ci sono e non c’ero
Io sono la dissolvenza al nero
.. ..
Io sono niente, sono il non vivo
Io sono il punto interrogativo
Sono lo zero, sono il cancellato
Io sono il bambino mai nato
Sono il mancante, sono l’assenza
Sono l’eroe della desistenza
Io sono il no, sono il disperso
Sono il filo interrotto del discorso
.. ..
Io sono il nulla, io sono il vuoto
sono quello che manca nella foto
io sono il forse, io sono il mai
io sono ciò che non ricorderai
io sono fumo, io sono aria
io sono il buco di memoria
io sono il non so il presente negato
io sono quello che non c’è mai stato
.. ..
io sono quello di cui non si chiede
io sono quello che non si vede
sono la fuga, il cammino perduto
io sono il disertore ignoto
sono il refuso, la latitanza
la distrazione, la dimenticanza
sono il dilemma, sono il non saprei
io sono quello che non c’è mai
.. ..
io sono il nulla, io sono il vuoto
io sono quello che non viene in foto.

A volerlo descrivere con una boutade: Canali sono le bestemmie dette come parole d'amore e viceversa. Le sue non sono mai semplici canzoni, sono preghiere battagliere & poesie dinamitarde, sempre intrise di realistico disincanto ("sulla sponda del fiume prego il vostro dio, che il prossimo cadavere che passa non sia il mio"). Canali è il nichilismo vitale, il pessimismo ribelle. Uno spot vivente all'anarchismo creativo (e attivo, basti pensare al suo infaticabile essere produttore artistico della peggio-meglio gioventù in musica nostrana). Una versione consapevole del Giancarlo Giannini di "Film d'amore e d'anarchia" della Wertmuller: quella stessa identica insensata provinciale purezza, quella missione da portare a termine che ti incendia lo sguardo (e questo "Nostra signora della dinamite"-perchèno- potrebbe esserne la colonna sonora alternativa per un finale diverso). Già. Tanto burbero e spigoloso quanto poetico ed empatico, Canali è il nostro Gainsbourg senza le menate intellettuali e le pose da divo: le stesse sigarette senza filtro e lo stesso indistinguibile approcciarsi alla vita come all'arte. Radicale, intransigente, chirurgico quando seziona l'animo e i sentimenti, ma senza distacco anzi sporcandosi le mani, mettendosi in mezzo in prima persona. Con la foga e l'irruenza di un ventenne, con (ormai) l'esperienza di un cinquantenne: "ridono, ma cosa ci sarà mai da ridere? è un'assenza di pensiero che non puoi condividere!". E 'sticazzi. Una scrittura che è lucidità e "forza" insieme, che ribalta tutti i luoghi comuni. Che, come ha già scritto Carlo, "strozza l'Italia delle canzonette rispettandone la storia, si inventa una nuova melodia, le nuvole diventano 'senza Messico'; al posto di ululare alla luna come tutti i comuni mortali, è la luna che a volte ulula a lui". Essenziale, esiziale, senza nessun orpello o stronzata di troppo. Mai. "Qualcuno abbatta questi angeli, hanno rotto i coglioni". Che ti viene da pensare che Canali è uno di quelli che ha capito, di quelli che sanno tutto e che sanno come dirlo. Che vorresti essere una ragazza solo per gridare al cielo blu quel capolavoro che è 'Tutti gli uomini' ("e balli da sola, con 1000 occhi su di te, lasci senza parola ogni idiota che ti vede sorridere, ma quando scende la sera lo sai che quel sorriso non dura. Così resti da sola. Lo sai che prima o poi ci cascherai ancora. Come un'idiota ti innamorerai di un altro idiota ancora..."). E ti vengono i brividi solo a trascriverne il testo. E così è per parecchi altri pezzi di questa 5° uscita discografica ufficiale, fuori ancora per La Tempesta. Qualcosa come "proteggi i nostri impeti nostra signora della dinamite, mentre il mondo vive il suo miraggio di essere reale", per mettere le cose in chiaro. Se il precedente 'Tutti contro tutti' (2007) non aveva per niente convinto, questa nuova fatica spazza via ogni dubbio su un possibile rammollimento o -peggio- perdita d'ispirazione di monsieur LAZLOTòZ. "Nel lento e inesorabile precipitare degli eventi. Quale magia fà sì che ancora si canti?". Già. Una Magia (e una 'Lezione di poesia'). Come dire che mentre un mondo intero se ne va a puttane, Canali ci fa sapere che lui se ne sbatte i coglioni e resiste, accompagnato dalla fidata brigata Rossofuoco che ormai ha trovato la propria alchimia ed equilibrio perfetto nella batteria carrarmato di Luca Martelli, nel basso suadente sfuggente e francese di Claude Saut, nella chitarra testarossa di Marco Greco. E via andare. Le prime 4 tracce del disco sono da infarto. Perfette. Se il disco si chiudesse così sarebbe disco dell'anno a occhi chiusi, un Primascelta di quelli granitici e pesantissimi, invece poi Canali ci aggiunge pezzi marginali (lo fa sempre), poco rifiniti, poco diretti, palesemente poco riusciti (sarebbe interessante chiedergli perchè. appuntiamocelo per l'intervista), con qualche strofa geniale che però non basta a reggere il livello. Fino alla conclusiva e ariosa 'Mme e Mr Curie' che è un soffio di poesia che ti lascia lì così, esanime, a far ripartire il disco dall'inizio e ripensare che è così, che non ci sono cazzi, che parole più belle e esatte per dirlo non ci sono, che "se riesco a tenere i pensieri lontano da tutte le altre cose che mi fanno male, non riesco a tenerli lontano da te". Va bene così. D'altronde è evidente che "Nemmeno qui riesco a non pensare a te" e in più ho scritto fin troppo su un disco (e un artista) che è refrattario a qualsiasi chiacchiera inutile, che è pura sostanza.
C'est tout. Adesso un altro Pastis, per favore. (Rockit)

Tracklist
01. Quello della foto
02. Lezioni di poesia
03. Tutti gli uomini
04. Nuvole senza Messico
05. Rifugi di emergenza
06. Nostra Signora della Dinamite
07. MP nella BG
08. Schegge vaganti
09. Respira ancora
10. M.me et Mr. Curie











domenica 4 luglio 2010

Dente - L'amore Non E' Bello



http://www.myspace.com/amodente

http://www.mediafire.com/?5gzmhymlmnm

Buon Appetito - Testo
Sapessi che felicità mi dà l'idea di non vederti più, l'idea di non fidarmi più qualsiasi cosa mi dirai
Sapessi che felicità mi dà l'idea di non toccarti più, l'idea di non seguirti più in tutto ciò che fai
Ho messo le mani in tasca ed ho sputato sulla tavola, buon appetito amore mio!
Sapessi che felicità mi dà l'idea di non sapere più quando cammini dove vai, quando dormi con chi lo fai
Di tutte le lacrime che hai quante ne piangerai?
Quantificando il male che mi fai ho visto che non finisce mai
Quindi ho messo le mani in tasca ed ho sputato sulla tavola, buon appetito amore mio!
Quando fai la spesa cosa comperi, di che colore hai colorato i mobili,
vorrei non sapere più nemmeno dove abiti (x7)

"L'amore non è bello" (senza puntini di sospensione, sia chiaro) non è lo scontato inizio di uno proverbio, ma è un'affermazione recisa, che intende sottolineare in maniera esplicita la presa di distanze del cantautore Giuseppe Peveri, in arte Dente, dell'altrettanto scontata e retorica del cuore/amore, nella quale troppo facilmente incorrono quanti scrivono (o pensano di scrivere...) canzoni pop in italiano.
"L'amore non è bello" è dunque il terzo album di Dente, scopertosi cantautore solista dopo un passato da solo chitarrista e già fattosi apprezzare con il precedente "Non c'è due senza te" e per performance dal vivo nelle quali, oltre a presentare il suo lato strettamente musicale, concede libero sfogo a un'ironia quasi cabarettistica, espressa in giochi di parole e racconti stravaganti, dotati di una sana dose di cinismo. Lo stesso cinismo che ci vuole a far uscire proprio il giorno di San Valentino un album incentrato sì su temi amorosi, ma trattati in modo tutt'altro che mieloso, sezionando rapporti esauriti e narrando dell'amore soprattutto gli aspetti meno prosaici e forse per questo più autentici.
Decisamente più curato nella produzione e negli arrangiamenti rispetto al debutto "Anice in bocca" e al predecessore "Non c'è due senza te", "L'amore non è bello" vede Dente alle prese con un passaggio importante nell'acquisizione di una consapevolezza cantautorale che affonda palesemente le sue radici nella tradizione popolare italiana, tuttavia riveduta con un piglio fresco e personale, cui giova senz'altro lo spirito giocoso ma mai troppo autoreferenziale di testi dotati del pregio di non prendersi troppo sul serio, non così comune da riscontrare in chi fa musica in Italia.
In tredici brani limpidi e davvero godibili, Dente dimostra di sapersi destreggiare con abilità nella scrittura di canzoni dal pronto impatto melodico e adesso impreziosite da un ricco impianto strumentale, che lo vede impegnato al pianoforte oltre che alla chitarra e supportato dall'orchestrazione dei fiati a cura di Enrico Gabrielli (Afterhours), oltre che da altri collaboratori occasionali quali Fabio Dondelli e Andrea Abeni (Annie Hall) e l’immancabile Vasco Brondi. La maggior cura nella realizzazione del lavoro finisce dunque per esaltare l'aggraziato sentore agrodolce dei testi, che rappresentano il vero tratto distintivo del cantautore emiliano. Se infatti dal punto di vista melodico risulta inevitabile stabilire un nesso con il lirismo del Battisti più arioso, magari amalgamato con un pizzico del disincanto e del sottile nonsense di un Ivan Graziani, Dente riesce tuttavia a riempire i suoi brani di un'impronta personale, facendosi apprezzare tanto nelle canzoni d'amore al contrario ("sapessi che piacere che mi dà l'idea di non vederti più", “dove sono andate tutte quelle cose che non dividiamo più”) quanto in narrazioni divertite, come quella della disavventura con l'etilometro di "Quel Mazzolino", che dimostra la sottile ricercatezza del calembour linguistico ("ma non le sembra un controsenso scrivere un verbale?").
Ma Dente sa anche ammantare le sue canzoni di un'aura malinconica ma mai seriosa, come nei pezzi in cui rinuncia ai pur discreti divertissement a base di tastierine vezzose, in favore di canzoni d’amore più lineari o della semplicità della chitarra e del pianoforte, che accompagna le caustiche riflessioni sulla vita di coppia delle varie “Incubo”, "Buon appetito", "Sole" e “Sempre uguale a mai”.
Al di là dell'approccio alle tematiche trattate, "L'amore non è bello" è un lavoro con tutte le carte in regola per avvicinare al suo autore un pubblico più vasto di quello del solo ambito indipendente, e rappresenta altresì la dimostrazione di come il cantautorato pop italiano possa ancora trovare interpreti brillanti e credibili, con buona pace di chi continua a pensare che certa musica italiana si esaurisca soltanto negli stantii rituali sanremesi. (Ondarock)

Tracklist
1 La presunta santità di Irene
2 Incubo
3 A me piace lei
4 Voce piccolina
5 Buon appetito
6 La più grande che ci sia
7 Sole
8 Parlando di lei a te
9 Quel Mazzolino
10 Sempre uguale a mai
11 Finalmente
12 Vieni a vivere
13 Solo andata











venerdì 18 giugno 2010

Articoli Pubblicati

Vuk – The Plains
Blonde Redhead – Misery Is A Butterfly
Chris Pureka – How I Learned To See In The Dark
Massive Attack – Heligoland
Lone Wolf – The Devil And I
The Juliets – The Juliets
Blonde Readhead – La Mia Vita Violenta
Giorgio Verducci
Michel Gondry – Se Mi Lasci Ti Cancello
Marc Webb – 500 Giorni Insieme
Daniele Luchetti – La Nostra Vita
Paolo Virzì – La Prima Cosa Bella
Silvio Soldini – Cosa Voglio Di Più
Amor Fou – I Moralisti
Ulver – Shadows Of The Sun
Admiral Fallow – Boots Met My Face
Woven Hand – The Threshingfloor
Shearwater – The Golden Archipelago
Vic Chesnutt – North Star Deserter
Corde Oblique – The Stones Of Naples
Elva Snow – Elva Snow
Get Well Soon – Vexations
Midlake – The Courage Of Others
John Grant – Queen Of Denmark
Gogol Bordello – Trans-Continental Hustle
Blaudzun – Blaudzun
Biagio Antonacci – Inaspettata
Blaudzun – Seadrift Soundmachine
Damion Suomi – Damion Suomi
Alaska In Winter – Dance Party In The Balkans
Other Lives – Other Lives
Miles Benjamin Anthony Robinson – Miles Benjamin Anthony Robinson
Keane – Perfect Symmetry
David Bowie – The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars
Kwoon – Tales & Dreams
Idaho – The Lone Gunman
Hrsta – Stem Stem In Electro
The Rural Alberta Advantage – Hometowns
Pete Molinari – A Virtual Landslide
El Perro Del Mar – Look! It’s El Perro Del Mar
U2 – No Line Of The Horizon
Guy Blackman – Adult Baby
Soap & Skin – Lovetune for Vacuum
Franco Battiato – Fleurs 2
Muse – H.A.A.R.P. Live From Wembley Stadium
T (Thomas Walter/Herzfeld)) – Bau
Mono In VCF – Mono In VCF
Blonde Redhead – Melody Of Certain Damaged Lemons
Cesare Cremonini – Il Primo Bacio Sulla Luna
Papercuts – Mockingbird
Coco Rosie – La Maison De Mon Reve
Amanda Palmer – Who Killed Amanda Palmer
Port O’Brien – The Wind And The Swell
Gianni Zanasi – Non Pensarci
Maria Sole Tognazzi – L’uomo Che Ama
Redjetson – New General Catalogue
Shearwater – The Snow Leopard EP
Juno – Soundtrack From The Film
Musica: Classifica 2008 di Mymusic
Phyllida Lloyd – Mamma Mia!
Daniele Vicari – Il Passato E’ Una Terra Straniera
Biagio Antonacci – Il Cielo Ha Una Porta Sola
Electric President – Sleep Well
The Coral Sea – Firelight
John Carney – Once
Woody Allen – Vicky Cristina Barcelona
The Rosebuds – Life Like
Various Artists – Once-Music From The Motion Picture
The Lamb Lies Down On Broadway – Genesis
Sodastream – A Minor Revival
Euros Child – Cheer Gone
Tiger Lou – A Partial Print
The Panics – Cruel Guards
Seagull – Goodbye Weather
Let Me Introduce You To The End – A Love Of The Sea
Manu Chao – Estacion Mexico
Micah P. Hinson – Presents A Dream Of Her EP
Come scaricare da http://Ifolder.ru
Kraftwerk – Radioactivity
CatPeople – What’s The Time Mr Wolf?
Anthony Phillps – The Geese & The Ghost Remastered 2008
Adriano Celentano – L’animale
The Black Heart Procession – II
The Black Heart Procession – I
Antony And The Johnsons – The Crying Light
Margot & the Nuclear So And So’s – The Daytrotter Sessions EP
Oasis – Dig Out Your Soul
Ballboy – I Worked On The Ships
Interpol – Our Love To Admire
Franco Battiato – Il Vuoto
Le Luci Della Centrale Elettrica – Le Luci Della Centrale Elettrica
Daniel Lanois – Acadie
Hey Rosetta! – Into Your Lungs
Hey Rosetta! – Plan Your Escape
Weinland – La Lamentor
Sleeptalker – Simplify Simplify
Shearwater – Rook
Amandine – This Is Where Our Hearts Collide
Autumnblaze – Words Are Not What They Seem Prophecy
Autumnblaze – Lighthouses
Autumnblaze – Mute Boy Sad Girl
A Whisper In The Noise – As The Bluebird Sing
Patrick Wolf – The Magic Position
Green Carnation – Blessing In Disguise
Timesbold – Ill Seen Ill Sung
Green Carnation – The Acoustic Verses
Sham Rain – Empty World Excursion
Beirut – Gulag Orkestar
Bat For Lashes – Fur & Gold
Radiohead – The Best Of
Thrice – The Alchemy Index Vols. III And IV Air And Earth
Giusy Ferreri – Non Ti Scordar Mai Di Me
Amandine – Solace In Sore Hand
Antimatter – Live @ K13
Micah P. Hinson – And The Red Empire Orchestra
Scott Matthew – Scott Matthew
Gogol Bordello – Super Taranta!
Coldplay – Viva La Vida (Or Death And All His Friend)
Sham Rain – Goodbay To All That
Fabrizio De André – Canzoni
Francesco Guccini – Stanze Di Vita Quotidiana
Bang Gang – Ghost From The Past
Placebo – Covers
Siberian – With Me
Led Zeppelin – Mothership
Art Of Fighting – Runaways
Firewater – The Golden Hour
Bang Gang – Something Wrong
Fabrizio De André – Anime Salve
Micah P. Hinson – The Surrendering Ep
Amandine – Waiting For The Light To Find Us
Crosby, Stills, Nash & Young – Deja Vu Live
A Whisper In The Noise – Dry Land
Bodies Of Water – Ears Will Pop & Eyes Will Blink
Black Pony Express – Love In A Cold Place
Dr. Dog – Fate
Vasco Rossi – Il Mondo Che Vorrei
The Corrections – Repeat After Me
Bodies Of Water – A Certain Feeling
Stars – In Our Bedroom After The War
Trembling Blue Stars – The Seven Autumn Flowers
Anathema – Hindsight
Sham Rain – Someplace Else
Sham Rain – Deeper Into The Night
The Verve – Forth

Vuk - The Plains



http://www.myspace.com/vukmusic

http://rapidshare.com/files/251349335/vuk.rar

The Plains esplora paesaggi virtuali, reconditi, giardini, carnevali, funerali e territori sottomarini, alimentati da sogni, meditazioni, memorie e Spaghetti-western. [...] C’è qualcosa, portato dai venti del Nord, che proviene da un punto non ben individuato della sconfinata foresta finlandese, che arriva fino a noi. Immagini sconnesse che si fanno via via più definite… Abbarbicata sullo scranno dell’organista in una cappella sepolta nel muschio, Vuk scaglia la sua voce elegante ma ferma: il pentacolo incandescente davanti all’altare evoca con forza lo spirito di Nick Cave. Preghiere ataviche di religioni dimenticate incorniciano desolate distese dell’anima, violentata dalle fiammate inquietanti di una voce ultraterrena. Melodie rubate da musicisti ambulanti dell’Europa devastata dalla peste, untori strappati alla vita terrena di remoti villaggi ungheresi per un’immortale esistenza di schiavitù. [...] Attraverso le note, Vuk spia ciò che si agita nel profondo dell’ascoltatore, attraendolo con forza verso freddi abissi di oblio, in cui echeggiano le grida e i lamenti di milioni di anime [...]". Ora capirete bene che mi è un pò difficile aggiungere qualche parola alla recensione così evocativamente precisa di Lorenzo Righetto su Monthly Music, però dovrò comunque farlo. Orbene innanzi tutto potrei cominciare a dirvi che sotto il moniker 'Vuk' si cela la 27enne Emily Cheeger, metà finlandese e metà newyorkese, ex Dirty Projectors e multistrumentista (su 'The Plains' suona organo a pompa, fisarmonica, armonica, xilofono, theremin, kalimba, kantele, piano, chitarra, basso e ogni genere di percussione e questo dovrebbe già dare un'idea dal taglio musicale che lo indirizza). E dunque, nonostante le origini il suo album risulta tanto lontano dalle rotonde orchestrazioni pop scandinave quanto dalle spigolosità della scena alternative di New York. Il fatto è che Vuk riesce a creare una sorta di realtà alternativa attraverso la fusione di più piani musicali differenti e ad incastrarti dentro questo mondo parallelo è proprio la sezione ritmica, diciamo concrete oriented. Non siamo ai livelli di Tom Waits su 'Bone Machine' (la macchina delle ossa, appunto, quando perlustrava tutte le pattumiere di L.A. alla ricerca di materiali ed oggetti disparati da usare come percussioni in studio di registrazione), però risulta indubbia una certa ricerca in questo senso anche da parte di Emily. Allo stesso modo anche il suo fascino vocale gioca un gran ruolo in questo percorso musicale, con versatilità, estensione e modulazione, Vuk è in grado di passare con estrema naturalezza dalle potenti escusrioni vocali in stile Bjork, fin alle eteree fragilità alla Kate Bush. Ecco proprio la Bush è l'unico nome che mi balza in mente se dovessi fare un paragone, più antropologico che musicale, tra Vuk e qualsiasi altro artista. Spendo infine qualche parola sui pezzi del disco, tutti di grande impatto e messi in tracklist con un crescendo deflagrante. A cominciare dal mantra sciamanico di 'Barefoot In Arizona' (il pezzo che ho messo nella mia compilation di Giugno, passando per 'Kiss The Assassin' (che prodotta da Timbaland e cantata da Beyoncè con gli inserti rap di Jay-Z sarebbe la Hit dell'anno in tutte le charts) e per l'esotica 'All My Worries' (che comincia col profumo di 'Libertango' per virare decisamente verso sapori di samba e rumba brasileira) e per finire con la title track, una suite di quasi 7 minuti che compendia tutto l'album coi suoi differenti movimenti musicali che si sussieguono e la voce di Vuk che declama una sorta di canto pagano. 'The Plains' è un disco alieno e forse non adatto a tutte le orecchie insomma, ma caspiterina se non è un gran disco! (Almost Blue In Reverse)

Tracklist
1. Flint in The Pines
2. The Arms of Spirits
3. Red-beard
4. Accidental Mermaid
5. Gramophone and Periscope
6. Barefoot in Arizona
7. Kiss The Assassin
8. All My Worries
9. The Plains











martedì 15 giugno 2010

Blonde Redhead - Misery Is A Butterfly

Misery Is a Butterfly

http://www.myspace.com/blonderedhead

http://www.mediafire.com/?zwvdj3ejzbu

I Blonde Redhead sono sicuramente una mosca bianca nel panorama indie americano degli ultimi 10 anni. Newyorkesi per adozione e attitudine (il nome paga pegno alla no wave dei Dna), sin dagli esordi in stile Sonic Youth sotto il marchio (guarda caso) della Smell like records di Steve Shelley, sono stati protagonisti di un percorso musicale che li ha visti nella seconda metà dei 90 scrivere per la Touch And Go importanti capitoli del noise rock: dopo l’ottimo "Fake Can Be Just As Good" (1997) e "In An Expression Of The Inexpressible" (1998), i gemelli Amedeo e Simone Pace e Kazu Makino, ormai assurti al ruolo di cult band, approdano finalmente al loro sesto lavoro in studio dopo quattro anni di silenzio discografico. Questo "Misery Is A Butterfly", che esce per la leggendaria 4AD ed è prodotto dal solito Guy Picciotto, segna il passaggio definitivo alla canzone d’autore, configurandosi come la naturale prosecuzione delle intuizioni del precedente "Melody Of Certain Damaged Lemons" (2000), non a caso il loro disco di maggior successo (che addirittura li ha portati in tour con i Red Hot Chili Peppers).
La proposta musicale del trio italo-nipponico, che aveva i suoi punti di forza in un sound abrasivo dalle perfette geometrie nella migliore tradizione noise-rock, accompagnato da una crescente sensibilità verso la melodia, passando per l’avanguardia venata di elettronica, ha subito una decisa virata verso una forma canzone di stampo cantautorale, debitrice tanto del melodismo francese di Serge Gainsbourg (già omaggiato nell’Ep "Melodie Citronique" del 2001) quanto di quello italico strappacore del nostro Lucio Battisti (sic!). Certe asperità che ancora sopravvivevano nel lavoro precedente vengono del tutto a mancare, in favore di una scrittura lineare che si appoggia soprattutto sulle melodie vocali e sulle progressioni d’accordi; il tutto è sormontato da una produzione che rende il suono dei Blonde Redhead irriconoscibile: se non fosse per certe peculiarità ritmiche (da sempre loro tratto distintivo), per certe progressioni armoniche e per le voci, sembrerebbe quasi di ascoltare un disco di easy listening.
Si comincia infatti con gli arpeggi acustici del singolo radiofonico "Elephant Woman", dal ritmo regolare cadenzato da percussioni afro e dall’arrangiamento orchestrale incentrato sugli archi, il tutto ad accompagnare una malinconica melodia della Makino: l’effetto Sanremo è garantito (siamo sicuri che dietro alla consolle ci sia proprio Guy Picciotto?!). Sotto i suoni ovattati di "Messenger" ritroviamo un tempo sincopato à la "Bipolar" (da "Fake Can Be Just As Good"), con la voce nasale di Amedeo Pace su un classico giro armonico discendente, che verso la fine si produce in un elementare refrain vocale; "Melody" segue più o meno gli stessi cliché, con un organo che la fa da padrone e una chitarra baritono (strumento prediletto dai Blonde Redhead in luogo del basso) in primo piano.
Tra il walzer di "Doll Is Mine" e la classicità orchestrale della title track (guidata da un leitmotiv di piano, suonato da Kazu) si arriva a "Falling Man", uno dei brani più interessanti, che riprende gli stilemi di "In An Expression Of The Inexpressible" ed è impreziosito da imprevedibili guizzi di piano; suggestivo e onirico il vuoto ritmico a metà canzone. Con "Anticipation" lo scenario cambia: le tastiere dominanti danno vita ad atmosfere quasi dream-pop che addirittura potrebbero riportare alla memoria i Cure di metà anni 80. "Maddening Cloud" sembra una riproposizione di "Melody Of Certain Three" dall’album precedente, con cori beatlesiani (!), chitarre acustiche a tutto spiano e una dolente fisarmonica in sottofondo. Dopo il breve interludio di "Magic Mountain" (mellotron e voce, accompagnati da suggestive soluzioni percussive), con "Pink Love", che nella sequenza di accordi ha sapore di vecchia soundtrack, si torna alle soluzioni compositive di inizio disco, seppure qui il suono sia più aspro. "Equus" è un momento di ripresa prima della fine, con sentori new wave di basso e chitarre (Smiths!?!), un ritmo finalmente più concitato e i caratteristici singulti da geisha di Kazu.
La farfalla dei Blonde Redhead, nonostante rappresenti una scelta coraggiosa, non riesce del tutto a librarsi in volo. L’ effetto globale, purtroppo, è stucchevole, anche se non siamo in presenza di un cattivo disco: "Misery Is A Butterfly" è ben scritto e arrangiato.
Non si mette in dubbio l’onestà della loro proposta e della loro visione artistica, il talento è intatto, e le esibizioni dal vivo del trio (in cui i nuovi brani in versione naked guadagnano in impatto) lo provano. In questo caso il giudizio finale va lasciato all’ascoltatore; resta comunque un senso di straniamento e smarrimento di fronte a questo disco, distante anni luce dai fasti noise di "Fake Can Be Just As Good" ma, misteriosamente, suo "naturale" successore. (Ondarock)

Tracklist
1.Elephant Woman
2.Messenger
3.Melody
4.Doll Is Mine
5.Misery Is A Butterfly
6.Falling Man
7.Anticipation
8.Maddening Cloud
9.Magic Mountain
10.Pink Love
11.Equus

















lunedì 7 giugno 2010

Chris Pureka - How I Learned To See In The Dark

How I Learned to See in the Dark

http://www.myspace.com/chrispureka

http://www.fileserve.com/file/beu6sS5

Tracklist
1. Wrecking Ball
2. Hangman
3. Shipwreck
4. Barn Song
5. Broken Clock
6. Landlocked
7. Song for November
8. Lowlands
9. Time is the Anchor
10. Damage Control (Prelude)
11. Damage Control
12. August 28th





lunedì 31 maggio 2010

The Juliets - The Juliets

The Juliets

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/julietsband

Music Research Engine

Tracklist
1. Sweetheart 03:57
2. The Letter 03:51
3. This Just In 03:01
4. Sunday Song 03:57
5. Evolved Into 03:41
6. Rimbaud and Verlaine 03:07
7. Like A Parade 04:48
8. Streets of Gold 03:46
9. Landlord 00:30
10. Who Needs Astrology? 04:04
11. The Sequel 05:44
12. Drive You Home 02:52

domenica 23 maggio 2010

Marc Webb - 500 Giorni Insieme

Locandina (500) Giorni Insieme

http://www.megaupload.com/?d=M6XSCL1B
http://www.megaupload.com/?d=OCNGZNFY


Un film di Marc Webb. Con Zooey Deschanel, Joseph Gordon-Levitt, Clark Gregg, Minka Kelly, Matthew Gray Gubler, Rachel Boston, Geoffrey Arend, Chloe Moretz, George Romero, Ian Reed Kesler, Darryl Alan Reed, Valente Rodriguez, Patricia Belcher, Yvette Nicole Brown, Catherine Campion, Jennifer Hetrick, Jenn GotzonTitolo originale (500) Days of Summer. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 96 min. - USA 2009. - 20th Century Fox

Tom, con una laurea da architetto, lavora presso un editore di biglietti augurali per il quale deve inventare formule che vadano bene dal compleanno alla partecipazione a un lutto. Un giorno viene assunta come segretaria del suo capo Summer, la quale ha come filosofia di vita la regola di non volere un rapporto duraturo. Tom se ne innamora timidamente e lei lo contraccambia. Il film ci racconta, in un continuo andirivieni, i 500 giorni della loro storia a due.
Diciamolo subito: di esordi di questa qualità, nel genere 'commedia romantica', ce ne vorrebbero di più. Marc Webb, che ha alle spalle numerosi videoclip musicali, dirige con mano sicura e forte senso dell'humor che nasce dall'osservazione (un po' amara ma veridica) del comportamento umano. Il punto di vista è quello di Tom (così non mancherà chi accuserà il film di posizioni maschiliste) e già da questa scelta prende l'avvio il ribaltamento di alcuni stereotipi. Il romantico è lui, quello che sogna il matrimonio è sempre lui, quello che soffre di più è ancora lui. Intendiamoci: Summer non è affatto una cinica distruggiuomini. È semmai una giovane donna dei nostri giorni con barriere difensive che dovrebbero proteggerla dal dolore e con una contraddittorietà che fa parte del suo stesso essere e di cui finisce con il divenire consapevole.
Lo stile narrativo di Webb ci mette in situazione a partire dalla fine del rapporto (la prima risata la ottiene da subito con la scritta che compare sullo schermo in apertura di film) per poi farci surfare tra le onde di dinamiche di coppia in cui più d'uno potrà riconoscersi. Lo fa omaggiando il cinema che ama (da Il laureato a Il settimo sigillo) e regalandosi anche un'incursione nel musical con tanto di animazione incorporata. Senza mai perdere di vista il fil rouge che attraversa tutti i 500 giorni: è difficile (oggi forse più che mai) non fare confusione tra ciò che si vorrebbe che fosse e ciò che è nella realtà. In particolare nel rapporto di coppia perché, come cantava Eugenio Finardi, "l'amore è vivere insieme, l'amore è sì volersi bene ma l'amore è fatto di gioia ma anche di noia". Webb riesce a comunicare il concetto senza mai annoiare il suo pubblico. Neppure per un minuto. E non è poco. (Mymovies)





Daniele Luchetti - La Nostra Vita

Locandina La nostra vita

http://www.megaupload.com/?d=ND7FODI2
http://www.megaupload.com/?d=N4MMXNT2

Un film di Daniele Luchetti. Con Elio Germano, Raoul Bova, Isabella Ragonese, Luca Zingaretti, Stefania Montorsi, Giorgio Colangeli, Alina Madalina Berzunteanu, Marius Ignat, Awa Ly, Emiliano Campagnola, Alina BerzunteanuCommedia, durata 95 min. - Italia, Francia 2010. - 01 Distribution

Claudio è un operaio edile trentenne che lavora nei cantieri della periferia romana e vive con la moglie Elena e i due figli, in attesa del terzo. Gran lavoratore e marito devoto e innamorato, rimane sconvolto e impreparato dalla morte che raggiunge la donna, proprio mentre sta dando la vita al piccolo Vasco. Incapace di fronteggiare il dolore, si mette in testa di dover risarcire i figli, dandogli tutte quelle cose che, se non altro, si possono comperare. Si infila così in un affare più grosso di lui, dalle ripercussioni economiche e morali.
Daniele Luchetti non è tra i registi più prolifici del nostro panorama, ma quando parla lo fa con qualcosa da dire, con una formula di regia da sperimentare, con una curiosità sincera da soddisfare prima ancora per se stesso che per il pubblico.
Con La nostra vita, titolo troppo grande o troppo piccolo, a seconda della prospettiva, va a guardare il mondo delle nuove borgate romane (ma non solo): quei conglomerati di recente costruzione, esclusi dai servizi culturali della città ma abitati dalle giovani famiglie, dai bambini, luoghi tutt'altro che tristi o ignoranti. Sugli abitanti di questo mondo, molto più “persone” che “personaggi”, e sugli immigrati con cui dividono l'ambiente di vita e di lavoro, lo sguardo di Luchetti è fermo, non solo apregiudiziale ma empatico, onesto, forse ottimista. Nulla, dei macrodifetti del cinema italiano borghese, pare riguardarlo. Eppure la squadra al lavoro è quello, alla sceneggiatura ci sono sempre Rulli e Petraglia (sempre bravi, certo, ma sempre loro), alle musiche Piersanti, alle scenografie Basili. Professionisti evidentemente in grado di lavorare vario e meglio, se messi nelle condizioni.
Il film di Luchetti può conquistare o meno, per esempio la performance di Elio Germano, così improntata al massimo del realismo psicologico, è sempre ad un passo dal finire sopra le righe e dal rivelare la recitazione anziché cancellarla, e il film soffre un poco del fatto di essere un film su un personaggio (in continuità ideale con quello di Mio fratello è figlio unico) più che su una storia, ma non c'è dubbio che segni un punto e a capo. Forse non è ancora un nuovo inizio, ma è certamente un film di transizione, che di una nuova modalità mette le basi e rispetto al quale non sarà più facile fare come se niente fosse i film di prima. (Mymovies)





Paolo Virzì - La Prima Cosa Bella

Locandina La prima cosa bella

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

Un film di Paolo Virzì. Con Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Stefania Sandrelli, Claudia Pandolfi, Marco Messeri, Aurora Frasca, Giacomo Bibbiani, Giulia Burgalassi, Francesco Rapalino, Isabella Cecchi, Sergio Albelli, Fabrizia Sacchi, Dario Ballantini, Paolo Ruffini, Emanuele Barresi, Fabrizio Brandi, Michele Crestacci, Bobo Rondelli, Paolo Giommarelli, Giorgio Algranti, Riccardo Bianchi, Giacomo BibianiCommedia, durata 116 min. - Italia 2010. - Medusa

Bruno Michelucci è infelice. Insegnante di lettere a Milano, si addormenta al parco, fa uso di droghe e prova senza riuscirci a lasciare una fidanzata troppo entusiasta. Lontano da Livorno, città natale, sopravvive ai ricordi di un'infanzia romanzesca e alla bellezza ingombrante di una madre estroversa, malata terminale, ricoverata alle cure palliative. Valeria, sorella spigliata di Bruno, è decisa a riconciliare il fratello col passato e col genitore. Precipitatasi a Milano alla vigilia della dipartita della madre, convince Bruno a seguirla a Livorno e in un lungo viaggio a ritroso nel tempo. Le stazioni della sua “passione” rievocano la vita e le imprese di Anna, madre esuberante e bellissima, moglie di un padre possessivo e scostante, croce e delizia degli uomini a cui si accompagna senza concedersi e a dispetto delle comari e della provincia. Domestica, segretaria, ragioniera, figurante senza mai successo, Anna passa attraverso i marosi della vita col sorriso e l'intenzione di essere soltanto la migliore delle mamme. A un giro di valzer dalla morte, sposerà “chi la conosceva bene” e accorderà Bruno alla vita.
È cosa nota ma è bene ribadirlo. Se si cerca un erede convincente della grande tradizione della commedia all'italiana, quello è indubbiamente Paolo Virzì. Lo è per attitudine, scrittura, sguardo. Per la modalità di immergersi nell'anima vera e nera del nostro paese, producendo affreschi esemplari e spaccati sociologici precisi. Archiviata la Roma dei call center e della solidarietà zero (Tutta la vita davanti), il regista livornese torna in provincia con una commedia drammatica e col professore depresso di Valerio Mastandrea, che spera un giorno di “ingollare” quella madre che non va né giù né su ma che ugualmente suscita un'irresistibile attrazione.
Indietro nel tempo e al centro del film c'è allora una mamma, l'affettuosa e “disponibile” Anna di Micaela Ramazzotti, idealmente prossima alla Adriana di Antonio Pietrangeli (Io la conoscevo bene), sedotta dalle persone e dagli avvenimenti ma trattenuta e contenuta dall'amore filiale. Se Adriana fosse sopravvissuta alle malignità di un cinegiornale e a un volo dalla finestra della sua camera, avrebbe adesso due figli e un cancro nella Livorno e nel cinema di Virzì. Perché Anna, mamma negli anni Settanta, è come Adriana vittima del torpore psicologico della provincia e della diffusa incomprensione maschile, da cui non sono immuni il figlio e il marito. A interpretarla nel tempo presente e nel letto di un hospice, centro di accoglienza e ricovero per malati terminali, è appunto Stefania Sandrelli, che trova per il suo personaggio (tra)passato un destino più dolce.
La prima cosa bella nel film di Virzì è proprio il personaggio di Anna che, libera e priva di pregiudizi, vive in uno stato di perenne disponibilità nei confronti della vita, offrendo agli uomini quello che può e ai figli quello che sente. Dotata di un'autenticità insolita e una femminilità impropria in un mondo di persone “normali”, Anna è insieme amata e invisa al figlio, che ripudia il candore scandaloso della madre e trova rifugio senza pace nella fuga. Rientrato suo malgrado nella vita di provincia come un adolescente dopo l'ennesima evasione, Bruno indaga un'unità difficile da trovare dentro i silenzi e il dolore compresso. La famiglia rappresenta allora il cuore della commedia, condita con robuste iniezioni di popolarità e ghiotte cadenze toscane, dentro il quale ci tuffa e si tuffa il figlio dolente di Mastandrea, incontrando i fantasmi del passato e contrattando il proprio posto nel mondo.
La prima cosa bella si appoggia su un coro di attori efficaci nel sapere stare dentro e fuori i personaggi, finendo per dare forma a una felice e insieme scriteriata idea di famiglia. Dalla meravigliosa inadeguatezza di Mastandrea deriva poi l'equilibrio tra ironia e malinconia che è la cifra di una commedia colma di sentimenti e spoglia di sentimentalismi. (Mymovies)





Silvio Soldini - Cosa Voglio Di Più

Locandina Cosa voglio di più 

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

Un film di Silvio Soldini. Con Alba Rohrwacher, Pierfrancesco Favino, Giuseppe Battiston, Teresa Saponangelo, Monica Nappo, Tatiana Lepore, Sergio Solli, Gisella Burinato, Gigio Alberti, Fabio Troiano, Francesca Capelli, Danilo Finoli, Martina De Santis, Leonardo Nigro, Adriana De GuilmiCommedia, durata 126 min. - Italia, Svizzera 2010. - Warner Bros Italia

Anna ha una vita come tante altre. Ha un buon lavoro in cui è apprezzata e ha un compagno da qualche anno, Alessio, che l’ama e con cui conduce un menage tranquillo al punto di poter accarezzare l’idea di smettere di prendere la pillola e avere un figlio. Un giorno però a una festa incontra un cameriere, Domenico. Lo rivede perché è venuto a recuperare un coltello dimenticato e da quel momento per entrambi il desiderio non è più contenibile. Domenico è sposato e ha due figli piccoli. Non c’è un posto in cui i due possano incontrarsi liberamente e allora la scelta obbligata diventa il motel. Per due ore, la sera del mercoledì quando lui dovrebbe essere in piscina per un corso da subacqueo. Fare equilibrio tra passione e vita di tutti i giorni non è però un’impresa facile.
Silvio Soldini torna ad affrontare il tema delle relazioni uomo-donna con coerenza anche se apparentemente ribaltando la prospettiva rispetto al precedente Giorni e nuvole. In quel caso il contesto economico–sociale era evidenziato sin dall’inizio con la perdita del lavoro mentre qui emerge pian piano. L’amore al calor bianco che travolge Anna e Domenico (e con loro, anche se in maniere diverse, anche i reciproci contesti familiari) non interessa al regista e agli sceneggiatori di per sé (sarebbe una storia già ultra nota) ma contestualizzato in un mondo in cui le certezze di un tempo sono state messe profondamente in crisi.
Anna e Domenico non possono astrarsene nel loro rifugio con specchi del motel. I corpi che si sono donati reciproco piacere credendo di poter chiudere il mondo fuori in realtà lo hanno portato con sé (e lo faranno anche se lontani fisicamente da quella Milano in cui Soldini torna a girare dopo lunga assenza). La macchina da presa li segue e li comprende così come comprende Alessio nella sua tenace difesa del rapporto con Anna barricato dietro un quieto e determinato non voler sapere. Comprende anche Miriam, la moglie di Domenico, incapace invece di chiudere gli occhi dinanzi all’evidenza e in costante, quotidiana lotta contro la precarietà economica.
E’ uno sguardo in ricerca quello di Soldini e il suo cinema si rivela, come un sismografo dei sentimenti, capace di registrare le scosse dirompenti così come i più piccoli sussulti, magari provocati da un rumore fuori campo. Perché fare del bene a se stessi, come Anna e Domenico vorrebbero, senza fare del male agli altri (ciò che si desidererebbe restasse fuori campo) è una delle imprese più difficili da compiere. (Mymovies)





lunedì 17 maggio 2010

Ulver - Shadows Of The Sun

Shadows of the Sun

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/ulver1

Music Research Engine

Croce e delizia di chiunque voglia scrivere di musica in termini di generi e classificazioni, i sempre più indefinibili Ulver tornano tra noi con l'ennesima metamorfosi di quella che iniziò nel '94 come avventura ben radicata nella scena black-metal norvegese e ha poi esplorato senza sosta territori lontanissimi dalle premesse. Mai un loro disco è stato neanche lontanamente simile al precedente. Al loro attivo possiamo trovare opere di folk arcaico, puro e contemplativo (il magnifico "Kveldssanger", del 1995) così come esperimenti di elettronica glitch (la presenza di Fennesz nel presente album non è casuale) e trip-hop (l'esaltante "Perdition City", 2000) fino al prog destrutturato dell'ultimo "Blood Inside" (2005).
E dunque cosa mette in scena stavolta il terzetto capitanato da Kris "Garm" Rygg? In primo luogo un ininterrotto, e saggiamente breve, flusso di musica ipnotica, strisciante, atmosferica sino a rasentare l'impalpabile. L'esatto contrario dello schizofrenico caos che animava il precedente lavoro, insomma. L'album è quasi totalmente privo di interventi ritmici, la scena è tutta per la voce meravigliosa di Rygg e per paesaggi strumentali tanto raffinati quanto eterei. Echi di Coil (i quali furono una decisiva rivelazione lungo il percorso della band), Sylvian, Radiohead - quelli dei momenti più introspettivi di "Kid A/Amnesiac" - si rincorrono lungo le strutture oniriche dei nove movimenti (parlare di canzoni sembra fuorviante) che compongono questa oscura ed estasiante eclissi sonora.
I primi tre brani in particolare formano un unico momento di crescente, rapita meraviglia. "Eos", rarefatto, mirabile capolavoro fluttuante tra tremolii di archi e organo e voci che migrano senza peso nella stasi spettrale di "All The Love", interrotta dal primo dei pochi interventi di batteria del disco, e spedita poi verso un crescendo stellare, affollato con leggiadria da piano, tromba, xilofono e subito fagocitato dall'acquerello cameristico di "Like Music".
I trattamenti elettronici dell'ospite d'onore Fennesz guidano invece la straordinaria "Vigil", che pure è il momento più sognante e melodico dell'opera. Qui le idee si fanno forse più chiare. Ci troviamo dentro il disco per così dire "pop" degli Ulver, la loro opera più accessibile, umile e raccolta. In definitiva, la loro opera più sincera e ispirata da molti anni a questa parte. Siamo dentro le loro personali, sigurrosiane parentesi, al cospetto di una band matura e forte della propria assoluta libertà creativa e compositiva.
La grandezza di una band che sfugge a qualunque definizione di genere si compie di nuovo nel cuore dei chiaroscuri che danno all'album la sua fragile eppure perfetta forma. Non c'è un modo per definire l'incredibile cover di "Solitude", classico dei Black Sabbath reso dagli Ulver in una versione notturna e jazzata che toglie il respiro. Né si possono rinchiudere in una definizione di genere spettacoli di astrale bellezza come la title track, introdotta da un funereo drone di harmonium e poi lasciata libera di raggiungere vette altissime e inondate di luce, luce da cui prende forma il tumulto epico e incantato di "Let The Children Go". L'estasi di fronte all'Apocalisse.
Ancora, dopo la sempre più sussurrata e impalpabile "Funebre", marchiata dai vagiti del theremin (suonato dall'artista di casa Tzadik Pamelia Kurstin), ecco che "What Happened" chiude il cerchio riallacciandosi al tema d'archi di "Eos". E spegnendosi in un lento, inconsolabile risveglio, nel nero e nel silenzio. Alla fine di questo breve, alieno, autunnale sogno messo in musica, c'è posto solo per il silenzio. (Ondarock)

 Tracklist
1. Eos 
2. All the Love 
3. Like Music 
4. Vigil 
5. Shadows of the Sun 
6. Let the Children Go 
7. Solitude 
8. Funebre 
9. What Happened?





martedì 11 maggio 2010

Admiral Fallow - Boots Met My Face

Boots Met My Face

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/admiralfallow

Music Research Engine

Tracklist
1. Dead Against Smoking
2. Squealing Pigs
3. Subbuteo
4. Delivered
5. These Barren Years
6. Old Balloons
7. Bomb Through The Town
8. Four Bulbs
9. Taste The Coast
10. Dead Leg





venerdì 30 aprile 2010

Vic Chesnutt - North Star Deserter

North Star Deserter



Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/vicchesnutt

Music Research Engine

Cantautorato dolente ed evoluzioni del miglior post-rock orchestrale: un’attrazione fatale tra due universi musicali paralleli, i cui prodromi si erano già manifestati in alcune opere prodotte dai collettivi canadesi gravitanti intorno all’etichetta Constellation, e che trova adesso consacrazione nella collaborazione di molti di quei musicisti con uno dei songwriter americani più validi e sensibili.
Prima di essere la semplice risultante dell’attività di un “supergruppo”, “North Star Deserter” rappresenta il punto d’incontro tra due percorsi artistici che, pur tra loro distanti, hanno seguito timidi passi di reciproco avvicinamento. Da un lato, Vic Chesnutt nell’ultimo “Ghetto Bells” aveva immerso l’essenzialità del suo songwriting in arrangiamenti orchestrali di epica drammaticità; dall’altro, i primigeni post-rocker canadesi avevano già più volte provato a “dar voce” alle loro fosche trame sonore, riuscendovi in maniera mirabile nel troppo poco considerato “Welcome Crummy Mystics” di Frankie Sparo, nonché nel più recente lavoro dei Silver Mt. Zion, “Horses In The Sky”.
Analogamente a quanto avvenuto lo scorso anno con l’album di Carla Bozulich, il “circolo chiuso” dei musicisti canadesi si apre ancora a decisivi contributi esterni da parte di artisti con storie e background musicali differenti, affiancando al duo Hangedup e ai Silver Mt. Zion al completo, non solo la voce e la scrittura di Vic Chesnutt, cui l’album è giustamente accreditato, ma persino un’icona del rock statunitense degli ultimi due decenni quale Guy Picciotto, qui impegnato in alcuni brani alla chitarra e ai field recording.
Le premesse derivanti dal numero e dalla qualità degli artisti che vi hanno partecipato sono pienamente rispettate in “North Star Deserter”, opera articolata e poliedrica, che non si limita alla mera sommatoria delle esperienze in essa raccolte, ma le coniuga in un unicum concettualmente coerente, seppur espresso nella prevalenza ora dell’approccio cantautorale “classico” di Chesnutt, ora di un’orchestralità sinistra e sovente distorta, ora infine dell’intensità drammatica di crescendo e spasmi elettrici.
Questi tre ideali capisaldi del lavoro, che in esso convivono intrecciandosi in maniera talvolta imprevedibile, sono chiaramente riscontrabili già nelle prime tre tracce e nel loro progressivo aumento di tono e complessità delle strutture compositive. L’album parte infatti in sordina con “Warm”, ballata dimessa ed essenziale, che non aggiunge molto a quanto da sempre espresso dal compunto cantautorato di Chesnutt; ma il contesto comincia a mutare già nella successiva “Glossolalia”, con il suo cantato sofferto, prima sostenuto da inserti d’archi distorti e pian piano affiancato da cori obliqui; infine, i sette minuti di “Everything I Say” danno luogo a una ballata orchestrale dalle atmosfere stranianti, scossa da spasmi elettrici ripetuti, che sembrano rappresentare la traduzione in un quadro cantautorale e vagamente bluesy dei crescendo lenti e impetuosi dei Godspeed You! Black Emperor, dei quali evocano l’alone apocalittico, raggiungendo una tensione drammatica ad essi paragonabile.
In tutta la restante parte dell’ora scarsa di durata dell’album, Chesnutt e i musicisti che l’accompagnano non si limitano a replicare le modalità espressive sopra individuate, ma le rimescolano in continuazione, rivelandone le tante possibili sfumature. Se si eccettuano, infatti, gli estremi rappresentati dalle pur efficaci ballate più sommesse ed essenziali (“Wallace Stevens”, “Over”) e dal claustrofobico sciamare elettrico “post-hardcore-blues”, scatenato dalla chitarra di Picciotto in “Debriefing”, l’album persegue con successo l’idea di sincretismo artistico ad esso sottesa, alternando l’inserimento, intorno a canzoni dalla chiara impronta cantautorale, di sobri arrangiamenti d’archi e pianoforte, loop elettrici, bozzetti di minimalismo acustico, substrati distorsivi uniformi e persino ipnotici accenni ambientali. Il risultato di queste continue transizioni sonore è particolarmente riconoscibile in brani come “Marathon”, “Fodder On Her Wings” e la magistrale “Splendid”, nei quali elementi eterogenei si fondono in compiuto equilibrio, coronando la scrittura e l’interpretazione vibrante del songwriter georgiano e allo stesso tempo segnando un ulteriore stadio evolutivo del percorso intrapreso dai musicisti canadesi in “Horses In The Sky”, album nei confronti del quale “North Star Deserter” si pone in evidente linea di continuità.
Così, i due universi artistici si incontrano e, senza collidere, si integrano in un album non ascrivibile all’uno né all’altro, ma dotato di una propria peculiare, tormentata identità, la cui forza espressiva fa rifulgere le doti dei suoi artefici, rivelando, traccia dopo traccia, dettaglio dopo dettaglio, un ibrido musicale denso di fascino e dai caratteri ormai sempre più consolidati. (Ondarock)
P.S. Vic Chesnutt muore il 25 Dicembre 2009, nella sua città, Athens (Georgia), dopo essere stato in coma per due giorni per ingestione di un mix di farmaci. Muore tra i debiti con la sua assicurazione per le incessanti e infinite cure mediche di cui ha avuto bisogno per tutta la vita.

Tracklist
1.Warm
2.Glossolalia
3.Everything I Say
4.Wallace Stevens
5.You Are Never Alone
6.Fodder On Her Wings
7.Splendid
8.Rustic City Fathers
9.Over
10.Debriefing
11.Marathon
12.Rattle







Corde Oblique - The Stones Of Naples

The Stones of Naples

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/cordeobliqueunofficial

Music Research Engine

Corde Oblique è il progetto folk-acustico di Riccardo Prencipe, artista napoletano che, facendo leva anche sulla sua attività di storico dell’arte, è da sempre interessato alla creazione di una musica profondamente “visiva”, capace di raccontare e descrivere luoghi suggestivi. “The Stones Of Naples” è il suo terzo lavoro e prende il titolo dall’omonimo libro della storica dell’arte Caroline Bruzelius, che ha condotto studi sull’architettura medievale di Napoli. Un omaggio, quindi, a uno dei periodi storici più importanti della capitale del Sud. Un omaggio fatto di suoni che sono vere e proprie discese tra le ombre di un passato che fa sentire ancora forte la sua eco sulla quotidianità di una città tanto bella quanto problematica.
Coadiuvato da una schiera di musicisti, Riccardo solleva, così, il velo di una musica che, pur respirando il presente, bagna, come è giusto che sia, il suo volto tra le sorgenti del passato. Però, diciamolo subito, questi brani, pur nella loro delicatezza e nella loro appassionata dedizione verso sonorità scolpite nel tempo, non riescono, il più delle volte, ad andare oltre una certa convenzionalità. Per dire, giusto per mantenerci nello stesso ambito, non possiedono quella reale “profondità” e quella capacità di metabolizzare davvero il presente per riconsiderarlo alla luce del passato che abbiamo rintracciato nel disco dei Sinenomine.
Ad ogni modo, gli appassionati del genere saranno certamente a loro agio con composizioni come “La quinta ricerca” (un connubio di crepuscolarismo folk e sortite classicheggianti con tanto di dedica a Proust), la vulnerabilità e la fragilità di “Like an Ancient Black and White Movie”, la ballata in punta di piedi di “Dal castello di Avella” e la solare “La gente che resta”, impreziosita dalla voce di Claudia Sorvillo e dal clarinetto di Franco Perreca.
Accanto alla cover di “Flying” degli Anathema - che trova nel violino di Edo Notarloberti lo snodo cruciale per spingere ancora oltre, in fatto di intensità, un brano dai toni cupi e malinconici - trovano posto, poi, una “Barrio Gotico” (forse il momento migliore del disco) che, partendo dall’humus partenopeo, lo contamina con sonorità “altre”, in un gioco di rimandi che, finalmente, restituisce al disco un’impronta emozionale più “sentita”, meno scontata; il lirismo accorato di “La città dagli occhi neri” (dedicata a Napoli), la preghiera “irrisolta” di “Flower Bud” e una “Venti di sale” che, ispirata dal porto di Torre Annunziata, restituisce il mistero di quello che Borges definiva “un linguaggio indecifrabile”. (Ondarock)

Tracklist
1. La quinta ricerca
2. Venti di sale
3. Flower bud
4. Flying
5. Like an ancient black and white movie
6. La città dagli occhi neri
7. Nostalgica avanguardia
8. The quality of silence
9. Barrio Gotico
10. Dal castello di Avella
11. La gente che resta
12. Piscina Mirabilis





giovedì 29 aprile 2010

Elva Snow - Elva Snow

Elva Snow

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/elvasnow

Music Research Engine

Lo strano caso del disco d’esordio di una band che non esiste più da tempo, si potrebbe dire così. “Elva Snow” è infatti la riedizione – merito della sempre meritevole label tedesca Glitterhouse – dell’ormai introvabile ep di otto brani che la band ha pubblicato nel 2005, con l’aggiunta di due inediti. Trattasi di una riedizione quantomai importante, soprattutto per il successo solista del cantante Scott Matthew che è poi germogliato da questo progetto, successo che inevitabilmente ha riaccesso la curiosità sul nome Elva Snow.
Quando Matthew si trasferisce dall’Australia, sua terra natale, a New York, sul finire degli anni Novanta, tramite un’amica in comune entra in contatto con l’ex batterista di Morrissey, Spencer Cobrin. I due capiscono subito di poter mettere insieme le proprie esperienze e passioni musicali in un duo che faccia del pathos la propria bandiera. Cobrin scrive le musiche, Matthew le liriche. Il risultato è un rock d’autore elegante e magnetico in cui la lezione dei maestri David Bowie e Brian Ferry incontrano le traiettorie di band come Tindersticks e Suede. La voce di Matthew è un incanto: forza e dolore capaci di alternarsi in un’altalena timbrica che pare sempre sul punto di rompersi, contrappuntati da arrangiamenti mai invadenti, con la chitarra a scandire tempi e modi di un’intensità a tratti soffocante. Pavement Kisses e Hold Me fanno parte di quegli ascolti difficili da dimenticare, almeno per chi ama l’estetica della sconfitta che fa cantare versi come “yesterday you say you started to pray/a desperate attempt to/cover every prayer with every god/and hope to god that it works” e “hold me hold me if you told me/that lover meant leaver/hold me hold me if you’d mould me/to whatever matters”. Could Ya e Shimmer, con l’apporto della sei corde di Paul Jenkins, sono efficaci tentativi di amalgamare una più decisa sezione ritmica con l’elettricità delle due chitarre per suonare compatti come può solo un rock’n’roll full band e lambire territori smithsiani. Stars è una ballata claustrofobica sorretta da chitarra acustica e tastiera che nel finale sembra fare il verso al Bowie di Space Oddity. Dei due inediti, è il pezzo posto in chiusura, Hollywood Ending, a colpire nel segno: solo piano e voce per una canzone d’amore che non lascia scampo.
Dopo queste canzoni Spencer Cobrin torna a Londra e Scott Matthew inizia una carriera solista che lo vede affrancarsi dalle atmosfere rock per quell’estasi da camera fatta di torch songs e ambiguità sessuale divenuta, dopo il successo di Antony & the Johnsons, una delle ancore di salvezza dell’indie all’epoca della crisi discografica. L’exploit di Matthew arriva con la colonna sonora del film di John Cameron “Shortbus” e la santificazione con il secondo album “There Is An Ocean That Divides…”, uscito lo scorso anno, contenente brani di bellezza quasi impossibile – chi conosce White Horse sa di cosa parlo. (Il Mascalzone)

Tracklist
1."Pavement Kisses"
2."Hold me"
3."Could ya"
4."Drinking & Driving"
5."Shimmer"
6."Live for love"
7."Eyesore"
8."Last Drink"
9."Stars"
10."Hollywood Ending"





mercoledì 28 aprile 2010

Get Well Soon - Vexations

Vexations

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/youwillgetwellsoon

Music Research Engine

Comporre una sorta di concept sulle vessazioni dell'animo umano e sulle cure per superarle, con tanto di quartetti d'archi, fiati e citazioni di filosofia classica, sembrerebbe un proposito quantomeno ambizioso per un giovane di ventisette anni quale è Konstantin Gropper. Eppure questo "Vexations" è stato composto con relativa rapidità, se pensiamo che il disco d'esordio risale ad appena due anni fa. "Rest Now, Weary Head! You Will Get Well Soon" aveva imposto sulla scena europea la figura di questo polistrumentista tedesco, regalandogli alati paragoni soprattutto in riferimento all'"ambiente" canadese. Da segnalare è anche l'attività di compositore di colonne sonore, in particolare per il connazionale Wim Wenders ("Palermo Shooting", 2008).
Il riferimento cinematografico non è casuale, perché in "Vexations" l'aspetto figurativo non è assolutamente in secondo piano. Anche in questo Gropper è un personaggio del tutto herzoghiano (e non a caso il regista tedesco viene ricordato nella canzone "Werner Herzog Gets Shot"), intento a costruire una visione del mondo del tutto autoreferenziale. La sua visione, se non del mondo, della musica è ben definita: pare uno spettacolo riccamente imbastito, in cui gli unici spettatori siano gli spettri della propria mente.
L' ultimo lavoro di Get Well Soon è effettivamente di grande estro, con una cura mirabile degli arrangiamenti, quasi sempre roboanti, forse magniloquenti (si veda il campionamento del soprano che accompagna Gropper in "Red Nose Day"). Che questo "modo di fare", che ricorda piuttosto da vicino quello di Patrick Wolf, piaccia o meno, a essere particolarmente questionabile è la melodia dei pezzi, quasi mai di particolare ispirazione. Le sferzate fiatistiche, gli ariosi movimenti d'archi rappresentano così un propulsore aggiuntivo, laddove è però il carburante fondamentale a mancare. Quello che faceva del primo disco qualcosa di interessante.
Il carrozzone di Konstantin Gropper, vero e proprio spettacolo circense dalle tinte oscure e vagamente torbide, si dispiega su ben quattordici tracce. A spiccare, in un disco comunque non proprio scorrevolissimo, sono in realtà ben pochi momenti che si innalzano a fatica al di sopra del resto, zavorrato quest'ultimo anche da una sezione ritmica in secondo piano e di scarsa freschezza (ce ne si accorge subito in "Seneca's Silence" e "We Are Free").
La dolcezza sognante e funerea di "Red Nose Day" sembra un buon esempio, uno struggente e anche suggestivo viaggio nel tempo, col gracchiare del grammofono e la voce tenebrosa di Gropper che si alternano sullo sfondo di un paesaggio apparentemente immoto. Come spesso accade, il pezzo stenta a trovare una via d'uscita, una soluzione convincente. Un'eccezione è costituita da "A Voice In The Louvre": nonostante il giro melodico del tutto prevedibile, Get Well Soon riesce a infilare qualche cambio d'umore, tentando di far spiccare il volo al pezzo nell'intermezzo corale di solenne intensità e nel finale in cui il senso di pesantezza non scompare comunque del tutto.
L'immaginario creato da Gropper ricalca in gran parte ciò che viene espresso musicalmente: elegie circondate da fantasmi (Seneca), echi polverosi ("A Voice In The Louvre") funzionali a costruire il mondo decadente del Nostro, suggestioni gotiche di storie popolari dell'Est Europa ("We Are Ghosts"). Quest'ultimo pezzo, in cui le aperture orchestrali fanno intravedere, finalmente, un po' di leggerezza hannoniana, è uno dei pochi che sa affascinare, col suo dialogo tra testo e musica e la sua chiusura pirotecnica al coro nietzschiano di "And God is dead".
Sono prove che testimoniano che Gropper ha ancora qualche cartuccia da sparare: al termine di questo "Vexations", però, la tentazione di aprire la finestra per far entrare un po' d'aria fresca è forte. (Ondarock)

Tracklist
Disc 1
1. Nausea
2. Seneca's Silence
3. We Are Free
4. Red Nose Day
5. 5 Steps / 7 Swords
6. We Are Still
7. A Voice In The Louvre
8. Werner Herzog Gets Shot
9. That Love
10. Aureate!
11. We Are Ghosts
12. A Burial At Sea
13. Angry Young Man
14. We Are The Roman Empire
Disc 2
1. Teenage Fbi
2. Busy Hope
3. La Chanson D'Hélène
4. The World Needs A New...
5. Harmour Love
6. My Door
7. I'm Deranged
8. Good Friday











Midlake – The Courage Of Others

Courage of Others

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/midlake

Music Research Engine

Non vogliamo essere accusati di plagiare i Radiohead. Penso che i Radiohead siano molto più vicini alle mie inclinazioni naturali rispetto a, che ne so, i Jethro Tull. Ascolto molto molto di più i Jethro Tull che i Radiohead in questi giorni, ma potrei scrivere dieci canzoni simili a quelle dei Radiohead prima di riuscire una che ricordi i Jethro Tull. Voglio suonare più come i Jethro Tull, ma non ci riesco proprio. E' una grossa lotta."
Questa confessione "a cuore aperto" è una buona introduzione a "The Courage Of Others", nuovo disco dei Midlake, band texana di culto e beniamini del pubblico alternativo sin dalla pubblicazione di "The Trials Of Van Occupanther", del 2006. Vien da rovinare il climax di una recensione, per dire: pur di realizzare i suoi intenti e sconfiggere le sue ossessioni, Tim Smith ha rinunciato a tutto, finanche tarpando le ali alle sue "inclinazioni". Impaludato nella bianca tunica di druido celtico, sembra quasi che abbia talmente interiorizzato l'immaginario dei suoi padri putativi da riuscirne un personaggio dei mondi evocati da questi ultimi. Va detto subito: se l'unico obiettivo dei Midlake era quello di perlomeno "assomigliare" ai Jethro Tull, probabilmente possono ritenersi soddisfatti.
"The Courage Of Others" è infatti una lunga litania ambientata tra le selve e le radure dell'Inghilterra medievale: il tutto suona limpido, sapientemente intrecciato; a volte pare di essere nel mondo fatato degli Espers, col suono del flauto che incornicia certi idilli psych-folk. Il rifiuto della contemporaneità che risuona nelle parole di Tim Smith (sotto il profilo strettamente musicale) abbraccia tutta l'opera, in una sorta di chiamata alle armi ecologista: "Great are the sounds of all that live", canta Smith nell'apertura affidata al maestoso giro melodico di "Acts Of Man". Il volteggio acustico di accordi, ricamato su reiterati hammer-on e slide, riporta alle costruzioni di Pentangle e Fairport Convention ("The Horn"). Un riferimento che può ingannare perché, dell'estro chitarristico di questi ultimi, rimane un po' poco: il disegno dei pezzi contiene sostanzialmente soluzioni sempre molto simili.
Ciò che cercano i Midlake non è progettare grandi architetture sonore (come nelle ultime band citate); non è neanche comporre canzoni nel senso tradizionale del termine, come avveniva in "The Trials Of Van Occupanther". L'attenzione sembra focalizzata nel comporre qualcosa di più compatto possibile, nel ripetere con invidiabile ostinazione l'atmosfera di cupa, vigorosa predicazione frammista a una più interiore nostalgia per un tempo che è passato e che forse non è mai esistito. Quest'ultimo aspetto era centrale nel disco precedente: là i Midlake erano però riusciti a lasciarlo trapelare tra le pieghe delle storie raccontate nel disco, invece di farne una sorta di manifesto fin troppo evidente della loro musica.
I Nostri riescono in toto a restituire ciò che hanno in mente come leitmotiv del disco, traducendolo con queste ballate dall'incedere possente, in cui l'arpeggio acustico viene ora accompagnato ora sovrastato dal rombo imponente dell'elemento elettrico e dalla cantilenante declamazione di Tim Smith. Così dall'impatto iniziale, che può essere inebriante, con l'antifona liturgica di "Acts Of Man", si scivola ben presto nella ripetizione, in un disco così tanto impegnato nel rimanere "composto" che l'unica traccia che tenta di discostarsi dal resto ("Fortune", dolce stornello bucolico) pare quasi fuori posto. E' un peccato perché, per una volta, si respira un po' di aria fresca, nonostante non cambino di molto gli ingredienti.
La varietà di registro e, soprattutto, di composizione delle canzoni che era un punto fondamentale di "The Trials Of Van Occupanther" scompare quasi del tutto in "The Courage Of Others": laddove i cambi di umore disegnavano in modo narrativo lo sviluppo delle canzoni nel primo dei due, nell'ultimo il meccanismo viene utilizzato assai meno. Il risultato è che spesso si assiste a qualcosa di prevedibile, macchinoso.
"The Courage Of Others" conferma, ciononostante, una band in ottima salute sul piano dell'esecuzione. In prospettiva futura, è auspicabile che l'esperienza di questo disco sia riuscita a liberarli da certe manie di ricerca di un sound particolare a tutti i costi, e che tornino a concentrarsi sulla costruzione delle canzoni, più che sul loro abito. A costo di sentirsi paragonare di nuovo a Thom Yorke e soci! (Ondarock)

Tracklist
1. Acts Of Man
2. Winter Dies
3. Small Mountain
4. Core Of Nature
5. Fortune
6. Rulers, Ruling All Things
7. Children Of The Grounds
8. Bring Down
9. The Horn
10. The Courage Of Others
11. In The Ground











John Grant - Queen Of Denmark

Queen of Denmark (Dig)

Il Voto Di Pierolupo: 4/5

http://www.myspace.com/johnwilliamgrant

Music Research Engine

Storia come tante nel mondo del rock, quella degli Czars: partiti giovanissimi da Denver in cerca di successo e riconoscimento, nonostante un discreto seguito di culto e il convinto supporto di Simon Raymonde della Bella Union, i quattro americani non sono mai riusciti a compiere quel salto di qualità necessario a lasciare il segno. E così, tra dissidi, litigi, problemi di ego e gli inevitabili abusi di sostanze stupefacenti ed alcool, la band è sparita nel nulla, lasciando una manciata di buoni album e qualche canzone di assoluta bellezza.
Chiunque abbia avuto la ventura di ascoltare almeno un brano degli Czars, comunque, non ha potuto far a meno di notare la straordinaria e inconfondibile voce, calda, profonda e commovente, del loro leader e cantante John Grant.
Dopo il definitivo scioglimento della band, John si è trasferito a New York e, nella speranza di esorcizzare i propri demoni e di non gettare al vento quanto di buono aveva costruito, ha suonato in giro per gli States, di supporto a grandi nomi del rock alternativo, quali i Flaming Lips e i Midlake. Proprio i texani Midlake, letteralmente incantati dai brani che Grant presentava dal vivo, hanno deciso che sarebbe stato un vero crimine se John e le sue nuove canzoni fossero rimasti sconosciuti a un pubblico più vasto. Così, per contribuire fattivamente alla "redenzione" (quanto meno musicale) del talentuoso cantante e musicista del Colorado, la band ha portato Grant a Denton e questi, nelle pause della lavorazione dell'ultimo album dei Midlake, ha avuto la grande opportunità di incidere il proprio esordio solista, con la coproduzione di Paul Alexander e Eric Pulido, rispettivamente bassista e chitarrista della band texana.
Registrato in due mesi e suonato da tutta la band di Austin, "Queen Of Denmark" è il risultato di questo sforzo congiunto e sembra davvero essere l'album che John Grant era nato per incidere. Emozionante e sfrontato, cinico e doloroso, l'esordio del musicista di Denver racchiude in sé tutto il talento e la poetica che John ha sempre dimostrato di padroneggiare, senza però mai riuscire, prima d'ora, a esprimere compiutamente. Se tutti gli album degli Czars, infatti, anche quelli più riusciti, erano pletorici ed eccessivamente statici nella loro proposta musicale, per il suo primo tentativo da solista Grant evita il trabocchetto di puntare tutto sulla ballata, genere che più si confà al profondo timbro della sua voce, e a canzoni malinconiche e accorate alterna brani più solari e vivaci, a creare proprio quell'equilibrio che, in precedenza, era mancato ai lavori della band di origine.
Va detto che la voce di Grant, il cui timbro baritonale caldo e profondo si arricchisce qui di sfumature e acquisisce una pulizia cristallina, è indubbiamente ancora l'elemento portante dell'intero album. Non è quindi un caso se l'apertura è consegnata ai numeri che riescono meglio a John: tre slow da brividi, a partire dall'intenso e malinconico folk rock di "TC And Honeybear", dove la sua voce si intreccia con quella di un soprano, per proseguire con "I Wanna Go To Marz", brano già rodatissimo dal vivo, che acquista nella dimensione di studio una profondità e un'intensità inusitate, e per terminare con quella che è probabilmente la più bella canzone dell'intero lavoro, "Where Dreams Go To Die", una ballata dal sapore seventies che riesce a essere appassionante e drammatica, senza essere affatto stucchevole o kitsch.
Uno dei maggiori pregi di "Queen Of Denmark", tuttavia, ciò che lo rende straordinariamente godibile e coeso, è la capacità che Grant mostra di saper cambiare più volte registro: nascono così brani come "Sigurney Weaver" o "Chicken Bone" distinti da ritmiche più sostenute e dal sarcasmo che, prepotente, traspare nei testi e nell'interpretazione vocale ("...And I feel just like Sigourney Weaver, when she had to kill those aliens...", "I wanted to change the world, but I could not even change my underwear...") e si passa nel breve volgere di un brano dal rag time di "Silver Platter Club", con tanto di accompagnamento di fiati, a canzoni che non avrebbero stonato in una radio FM degli anni settanta ("Outer Space").
Grant ed i Midlake riservano a ognuno dei brani contenuti in "Queen Of Denmark" le stesse cure e attenzioni che un padre finalmente benestante dedicherebbe a quei figli amati tenuti troppo a lungo in ristrettezze. E così gli abiti di cui tutte le canzoni vengono rivestite sono sfarzosi, eleganti, cuciti con perizia e nessun dettaglio è trascurato: un'incantevole piano, che in brani come "Caramel" o nella elegiaca title track punta diritto al cuore (ed il fantasma del miglior Elton John è dietro l'angolo), il flauto del frontman dei Midlake, Tim Smith, a punteggiare i passaggi più sognanti, i synth vintage a là ELO che conferiscono a tutto il lavoro, insieme al riverbero delle voci e alla loro continua sovrapposizione, un mood manifestamente anni settanta, come nella sostenuta "Sigourney Weaver" o nella sensuale e malinconica "It's Easier",  fino ad un dolce e delicato violino che spesso addolcisce e riscalda l'atmosfera, come accade nella voluttuosa "Leopard and Lamb", o nella già citata "Where Dreams Go To Die", dove il country di Patsy Cline (uno degli idoli di infanzia di John) sposa Peter Hammill.
Le canzoni di “Queen Of Denmark” parlano del disagio di essere un giovane omosessuale in uno sperduto paese della provincia americana , circondato da bigotti e osteggiato dalla famiglia di origine ("I’ve felt uncomfortable since the day that I was born..." canta Grant nel brano esplicitamente titolato "JC Hates Faggots"), del desiderio di essere qualcun altro, di incontri d’amore e incontri di sesso casuale, di paradisi artificiali e sogni fanciulleschi. E ognuno di questi argomenti è affrontato con sarcasmo, grazia, rabbia, sventatezza, lasciando alle spalle ogni ipocrisia e volutamente ignorando il rischio che tali tematiche (e il frequente turpiloquio) possano dare origine a una qualche censura.
Facile sarebbe stato per Grant cadere nel cliché, costruire un album intero su languide ballate strappalacrime e sfruttare quale esclusivo fil rouge la discesa agli inferi che ha caratterizzato la sua vita negli ultimi anni. Ma, fortunatamente, l'artista americano rifugge dai triti stilemi del genere e riesce a regalare un lavoro sincero e appassionato, dove non c'è spazio alcuno per l'autocommiserazione e per la disperazione. Un album, "Queen Of Denmark", che sembra più vicino alla redenzione che alla definitiva caduta. (Ondarock)

Tracklist
1. Tc And Honeybear   
2. I Wanna Go To Marz   
3. Where Dreams Go To Die   
4. Sigourney Weaver   
5. Chicken Bones   
6. Silver Platter Club   
7. It's Easier   
8. Outer Space   
9. Jc Hates Faggots   
10. Caramel   
11. Leopard And Lamb   
12. Queen Of Denmark











mercoledì 21 aprile 2010

Gogol Bordello - Trans-Continental Hustle

Trans-Continental Hustle

Okay, con quest’album non ci avviciniamo neanche un po’ al rock “convenzionale” di cui ci piace discutere, ma di questo gruppo di pazzoidi (tra l’altro giunti al settimo album) bisognava proprio parlarne. Perché qui? Vi chiederete. Perchè i Gogol Bordello sono l’anello di congiunzione tra l’est, quello della desolante periferia, urbana e non, Russa e Ucraina e l’ovest rappresentato, nella fattispecie, dall’odierna scena musicale newyorkese. Questo meltin’ pot di influenze e stili, dà vita ad una creatura totalmente nuova e innovativa, dove le melodie tradizionali dell’est e il punk si incontrano, alternando fraseggi tipicamente gypsy a ritmiche frenetiche o di stampo smaccatamente reggae e hip hop. E da qui si inizia: “Pala Tute”, è una canzone dal ritmo quasi ipnoticamente dance, già eseguita dal vivo con Madonna (che rappresenta una specie di “nume tutelare” del gruppo) nel suo scorso “Sticky & Sweet Tour”, e qui presentata nell’inconfondibile maniera pseudo confusionaria e assolutamente divertente dei GB. “My Companjera” continua il discorso sulla scia dei fraseggi gypsy punk, mentre “Sun Is On My Side” e “Rebellious Love” si presentano più meditative e sognanti, con ritmiche meno incalzanti ma forti di arrangiamenti totalmente “esotici”. Da “Immigraniada” in poi si alterneranno song più sparate a momenti più mid tempo, con l’ago della bilancia che pende un po’ di più dalla parte della velocità. Provate ad ascoltare la succitata “Immigraniada”, così come “Break The Spell”, “To Rise Above” e “In The Meantime in Pernambuco”, tutte cavalcate gypsy punk godibilissime e divertentissime, piene di coretti e melodie che, sicuramente, faranno muovere teste e piedi anche dei più scettici, e poi ne riparliamo. “Trans-Continental Hustle”, album decisamente superiore al precedente (e deludente) “Super Taranta”, è un album da consigliare a chiunque vuole far festa senza sosta, insieme alla band di Eugene Hutz, e senza pregiudizi di sorta; non certamente verso una differente provenienza geografica e neanche verso un genere musicale, per noi, ancora così “stravagante”. (Metallus)

Tracklist
1 Pala Tute
2 My Companjera
3 Sun Is on My Side
4 Rebellious Love
5 We Comin’ Rougher (Immigraniada)
6 When Universes Collide
7 Uma Menina Uma Cigana
8 Raise The Knowledge
9 Last One Goes The Hope
10 To Rise Above
11 In The Meantime In Pernambuco
12 Break The Spell
13 Trans-Continental Hustle

http://www.myspace.com/gogolbordello

http://www.mediafire.com/?zwn2zy4njwa

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...